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Stimolante anche se avveniristico, nella sua spiazzante utopia, questo breve saggio di Luce Irigaray, dedicato al concetto di ospitalità e di accoglienza nella società multiculturale di oggi. «Più siamo costretti a interfacciarci con chi o cosa è estraneo o distante da noi, più dobbiamo scoprire cosa ci è proprio»; quindi, per aprirci all'altro, dobbiamo tuttavia rimanere noi stessi, non divenire uno, ma restare due: imparando a modificarci nelle nostre abitudini stratificate in millenni di cultura impositiva e poco democratica, nel linguaggio sempre orientato alla prima persona singolare, nelle situazioni abitative e urbanistiche ermeticamente chiuse al diverso. Non tanto integrando, quanto coesistendo in una rispettosa e paritaria vicinanza. E' più propriamente femminile l'apertura verso l'accoglienza e l'ospitalità, sedimentata fisicamente nell'esperienza materna, metaforizzata dall'esistenza della placenta che nella gravidanza nutre il bambino pur tenendolo distinto dalla madre. Non si deve inglobare chi non è noi, ma imparare a ospitarlo senza prevaricazioni. Spesso l'ospitalità viene intesa come «pratica di un gesto unilaterale e paternalistico verso un individuo più bisognoso rispetto a noi»: non deve essere un gesto caritatevole, né aspirare all'assimilazione dell'altro che cancelli la sua specificità. La prima cosa da fare, a livello sociale e individuale, per impostare una nuova cultura dell'ospitalità è «organizzare lo spazio in modo da creare un'architettura che renda possibile l'esistenza di ognuno e l'incontro tra individui», aprendo il circolo dell'orizzonte in cui siamo immersi, recuperando ambienti in grado di accogliere ogni corpo e cultura altra. Dove trovare questi spazi generosi e incontaminati? Secondo Irigaray «la natura potrebbe essere il luogo ideale per la coesistenza, se le condizioni climatiche lo permettono, ma non sempre ciò è possibile». Soprattutto nelle nostre asfissianti metropoli. U-topia, non luogo, secondo Thomas More.
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