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Omeros - Derek Walcott - copertina
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Omeros

Descrizione


Omeros, aedo del tempo presente, racconta la storia di due pescatori, Ettore e Achille, innamorati della stessa donna, Elena, sensuale cameriera di un hotel di Santa Lucia, piccola isola sovrastata da due coni vulcanici, al centro del Mar dei Caraibi. E ogni personaggio, anche quelli di contorno, è come incastonato in un'aura luminosa, che scaturisce sia dalla felice irruenza del magma metaforico di Walcott, sia dal carisma di nomi, gesti e pensieri che riecheggiano, non senza venature ironiche, quelli dei corrispettivi eroi omerici. Ma il poema racconta anche la storia di un tradimento: l'isola, a lungo contesa dagli imperi rivali di Francia e Gran Bretagna, è stata infine consegnata ai turisti.
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Dettagli

2003
5 novembre 2003
530 p., ill.
9788845918278

Valutazioni e recensioni

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Chromatica90
Recensioni: 5/5

Per questo libro serve immaginazione. Bisogna immaginare il Mar dei Caraibi. E l'Isola di Santa Lucia, là in mezzo, con una superficie di 620 km2. E la vegetazione selvaggia e lussureggiante della foresta tropicale. E i ritmi che scandiscono la vita in un posto del genere. E il respiro dell'oceano. Le onde. L'odore del mare. La salsedine. I riflessi del sole sull'acqua. Canoe. Guizzi di pesci. Reti. Pescatori. Orizzonti ampi. Una pioggia che lava le stelle. I colori. Ci si dovrebbe anche raffigurare Derek Walcott mentre trascorre lì l'infanzia e l'adolescenza. E poi occorre immedesimarsi in quella stessa persona, costretta ad assistere all'invasione, progressivamente sempre più incalzante e sfrontata, della sua terra da parte del turismo. Diversamente non si apprezzerebbe appieno un poema di 8000 versi dedicati al mare. Assolutamente da leggere

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Giuseppe
Recensioni: 2/5

Mi ero approcciato a quest'opera con molto entusiasmo, incuriosito dal tema e da un Nobel abbastanza meritato, come dicevano tutti. Non nego che Walcott sia un grande poeta, ma quel che posso dire è che questo poema mi ha lasciato abbastanza deluso. Lo stile non mi ha mai fin in fondo sorpreso, incantato, stupito, anzi, mi ha lasciato abbastanza indifferente: non sempre musicale, ritmico e calzante (a volte per via della traduzione, meglio leggerlo nella versione in inglese a fronte). La trama è molto fumosa. Non mi ha mai emozionato e coinvolto, se non in alcune descrizioni del mare. Certamente è nobile e lodevole da parte di Walcott dedicare un poema alla sua terra, così come la scelta di rendere persone comuni e umili gli eroi del componimento, dai nomi altisonanti di Achille, Ettore, Filottete, Ulisse... Rapporto qualità prezzo abbastanza improponibile.

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Salvatore
Recensioni: 3/5

è un poema in versi (quasi ottomila divisi in sette libri); è decisamente più adatto ad un corso universitario di lettere che ad un semplice lettore di romanzi come me in continuo salto da Marquez, Saramago, Grass, Hugo, Faulkner: lo vedi che c'è alla base uno studio ed un lavoro non indifferenti, ma dall'apprezzare ciò a passare ore piacevoli di lettura c'è di mezzo il mare ( caraibico o mediterraneo che si voglia)

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Voce della critica

Non proprio sotto quel medesimo sole di Omero che, secondo Goethe, accerta all'artista moderno la sua appartenenza a salutare e perenne classicità, ma almeno sotto il suo segno, dallo scorso anno è accessibile in traduzione italiana Omeros, il grande poema pubblicato nel 1990 dallo scrittore caraibico premio Nobel Derek Walcott). Dare motivato giudizio di opere capitali, non solo pertinenti alla storia letteraria ma di per sé, come questa, capaci di interloquire a gran distanza con l'antico fondatore - non diciamo modello - richiede di guardare anche a motivazioni non affatto letterarie che il poeta assume facendosi lui stesso giudice di tanta cultura accumulata in una tradizione intera: "l'arte è nostalgia della storia" (XLV, II).

Che non è davvero impegno leggero e da tutti. Ma Walcott sa anche giovarsi con geniale attitudine della sua appartata e delusa nazionalità, non già per darsi una mimetica Weltanschauung di negritudine, quasi una "visione dei vinti" costretti all'amara pedagogia del tempo postcoloniale o neocoloniale, bensì per rinunciare con dolorosa coscienza a lasciti ambigui della cultura occidentale e ristabilire, o meglio restituirsi, con Omero letto "non fino in fondo" e lasciando perdere gli dei (LVI, III), chiara elementarità di valori. E non certo valori propriamente omerici d'aristie???e d'eroismi guerrieri. Un Omero piuttosto estraniante era già in memoria da tempo nell'opera di Walcott (soprattutto in Another Life, 1973) e ricompare poi (The Odissey, a Stage Version, 1992) a insegna del costante sforzo di semplificazione etica: ché tale è la sostanza del magistero epico raccolto a margine dell'epopea antica, più marina che bellica.

Provando e riprovando soprattutto, vale a dire sempre ricusando le fraudolente ideologie di gloria e conquista che hanno prodotto e assicurato, anche dopo il loro tramonto, oppressiva miseria e inarrestabile degrado di comportamenti e cose, il nuovo e frammentato racconto epico ha numerosa scorta. Non solo Omero ma talora Swift, Melville, Poe, Conrad, Pound; vi occhieggiano all'occasione Properzio e Ovidio, Virgilio insegna pietà per il dolore, Dante durezza di sanzione, Eliot e Joyce ironie, l'uno di tragici eventi, l'altro di puntute parole. E da subito, dopo l'antefatto che aristotelicamente "pone dei nomi" (Achille, Ettore, Filottete), il nome di Omero giunge per ricordo "attraverso secoli di pergamena che raffigura il mare" (II, II), come dal rombo lamentoso di una conchiglia, nascosto nelle cose, sapido in bocca al narrante e sulle labbra di una ragazza, "Antigone, drappeggiata in bianco chitone / per fare quello che il passato sempre fa: soffrire, e guardare" (III, II).

L'empito morale e sentimentale insieme (Homeros = Home + Eros ?) si sigilla infine nella semplificazione estrema. Achille accetterà dalla donna contesa il figlio del rivale Ettore e continuerà la sua fatica di pescatore nonostante le squallide e umilianti novità del turismo. Il narratore condotto dalla ferma, marmorea mano di Omero, conviene con lui che l'amore per quella sua gente, volgo disperso che non ha nome, gli ditta dentro in immagine di ragazza il cui odore "è meglio delle biblioteche del mondo intero" (LVI, III). Il nuovo narratore epico, insinuandosi con inaspettata prima persona, si assimila spesso ai personaggi, ne soffre le vicende e ne propone lo storico pathos con amarezza e con inesausta fiducia nella bellezza che può ancora salvare il mondo.

Non quindi soltanto tropici tristi al modo di Lévi-Strauss. L'isola materna, Santa Lucia, veste ancora lo struggente splendore della donna contesa, una nuova Elena d'ebano o di bronzo, non scolpita nel marmo o nell'alabastro antico: intorno all'ondeggiante figura si raccolgono desideri e pensieri, si incrociano storie di vita più significative della contrastata storia dell'arcipelago dove imperi transoceanici hanno per secoli combattuto e ambizioni commerciali (zucchero e schiavi!) hanno devastato uomini e cose. Elena è troppo bella per fare la cameriera, Achille troppo orgoglioso per rassegnarsi a tradire il suo mare per lei, Ettore troppo appassionato di lei per non tentare un altro mestiere: eccolo allora conducente di piazza per i turisti fino all'incontro con la morte per incidente stradale, forse suicidio occulto a punizione di tragica colpa. Soffrono e guardano intorno altri personaggi: Filottete, silenzioso e paziente, che soffre d'una piaga infistolita su una gamba, attende i filtri di Ma Kilman secondo formule africane; il sottufficiale inglese in pensione Dennis Plunkett, che studia la storia dell'impero britannico nel nuovo mondo, pratica un bizzarro giardinaggio e immalinconisce alla morte della moglie Maud, Penelope nostalgica di altre isole, quelle britanniche, e dedita ai favolosi ricami d'una tela mai finita.

Come il narratore, Plunkett ha visto passare, vela sull'orizzonte, l'assidua e non classica bellezza di Elena, irraggiungibile sempre; ha compulsato carte per spiegare eventi lontani che dovrebbero assicurare senso alla sua vita di trapiantato: dovrà ricorrere anch'egli agli illudenti conforti di Ma Kilman, capace di evocare, anima a lui compagna, la moglie defunta. Il peso del passato grava sugli attori e sull'autore della fabula; tratti di lirica intensità si alternano a tratti di riflessione elegiaca, ma l'empito poematico non cede mai e talora suscita l'impressione di un romanzo in versi, un romanzo antistorico che nel passato scopre la fragilità di vinti e vincitori insieme. L'epica propone verità gravi e semplici trascolorando in tragedia.

Il narratore aggiunge di suo al mosaico ricordi, quasi quadri, di città nordamericane ed europee: Boston, Toronto, Londra, Lisbona. Sono i luoghi dove il destino ha compiuto e compie assurdi giochi ripetendo oracoli mai compresi; la verità limpida e severa sta altrove, calpestata e dolente ancora. Nel poema due spazi, più evocativi che narrativi, quasi sogni per tragedia storica, hanno privilegio assoluto di grande poesia e forte rilevanza di pensiero. L'uno è spazio fantastico per il protagonista, Achille, scontroso pescatore al largo della costa turistica, l'altro è per l'autore, in cabotaggio fra malinconiche carte di falsate epopee. Achille sogna una volta e delira sotto la canicola quando una rondine marina guida il suo sguardo fra nubi e orizzonti lontani: un presagio o una rivelazione divina, proprio come in Omero. Dall'isola l'uccello drizza il volo verso la madre antica, l'Africa, da cui per tre secoli convogli di schiavi erano prima giunti oltre oceano. Come in una catabasi Achille incontra il padre che del suo nome eroico non stupisce; le cose, e come esse gli uomini, hanno nel nome stesso una sostanziale verità sottratta alle convenzioni e alle apparenze. Achille deve visitare un passato che segna il futuro e quindi la sua vita da accettare come comune destino di gente di là venuta, nuovi Mirmidoni, nere formiche affaticate in fila su spiagge diverse. Ma Achille vede allora e ascolta la maledizione immotivata, rivive la desolata razzia dei villaggi incendiati, il pianto degli innocenti, il buio delle fetide stive, l'abbacinante fulgore di coste sconosciute, le parole di uomini e donne gridate a "gli dei che non si erano fatti trovare / quando avevano avuto bisogno di loro" (XXVIII, III).

Però scoprire la storia come Achille all'improvviso in un mattino (XXXI, II) non è per l'autore che legge e confronta carte: i trattati con gli indiani pellerossa delle praterie e delle foreste mai osservati dai governi di Washington, gli scritti di John O'Sullivan sostenitore dei "provvidenziali" stermini d'aborigeni americani, di William Wilberforce oppositore della tratta degli schiavi, di Catherine Weldon sostenitrice dei diritti dei pellerossa espropriati e massacrati. La storia - per Walcott - è avvezza a dar ragione a chi non l'ha; ma per non perdere del tutto il necessario, forse epico ed eroico coraggio di vivere, la ragione va restituita, anche ai morti in silenzio. Come ai neri dell'Africa così ai rossi dell'America sterminati con violenza e frode, da freddo e fame. Su queste pagine trascorre un brivido forte: "Stava per iniziare la Danza degli Spettri dell'inverno (...) l'erba gelava sotto i pini ostinati, la luce sprofondava / nella terra, mentre il tuono cresceva e avvolto / nel cappotto militare percorreva la Grande Prateria // con la lancia del fulmine, la faccia infarinata, il pennacchio / del corvo portandosi dentro la morte, sfinito / Il dio rosso svanì con l'autunno e l'inverno bianco veniva" (XLII, III). Ma ipotiposi alte giungono al narratore di lontano, da un immaginato Omero, "dalle labbra / di un cantastorie dagli occhi bianchi e dal gemito di un balafon" (XXVI, I); più a lungo di Achille, l'autore, ancor prima dell'esperienza bostoniana (rappresentata in una stranita cameriera polacca), ha pensato e sofferto l'altro mondo di là dell'oceano da cui era sbarcato il destino del mondo nuovo.

Nel poema c'è infatti anche un cantore nero, Settemari, cieco e mendicante che molto ha viaggiato, molto confusamente ricorda e a tratti compare, dove la via assolata offre un poco d'ombra, biascicando incomprensibili lamenti, aedo di una musa che ha smarrito quel senso del tempo che invece Plunkett, Achille e l'autore vorrebbero riordinare. Come può esserci un Achille a Santa Lucia? "Il tempo traduce" (XXV, III) si assicurano tra di loro Achille e Afolabe, il suo mai conosciuto padre africano. Come traduce il tempo? Certo Omero è in Walcott anche ricordo letterario: ad esempio Elena è sempre, visibilmente, un po' caraibica e un po' greca, talora sembra anche Nausica o l'Elena fantasmatica di Euripide. Ma la chiarezza di neoclassiche facciate coloniali, la mutilata bellezza di naiadi e tritoni da fontana sono segni di una storica e tragica colpa; non inducono l'autore a piegarsi su qualsiasi residuo del tempo, "grande scultore" secondo il pietoso sentire di Yourcenar; all'opposto. Walcott crede ben altro: "Una cultura silenziosa (...) lenta ma certa / ci cambierà con l'eloquente scultura del Tempo / avrà la presa del polipo, saldata dalla bava / della lumaca di mare" (LIX, II). La gloria d'antichi eroi guerrieri balbetta, la filosofia deve cambiare direzione come i pesci migratori, la storia deve semplificare: forse la natura, con la forza del corallo "che si alimenta della propria morte" (ivi), medicherà il male della stessa natura umana. Con questa fiducia, se non fede, Walcott inneggia, con l'empito di Shelley o di Hoelderlin ("Oh Sole, unico occhio del cielo, oh Forza, oh Luce / il mio cuore s'inginocchia davanti a te..."), a umani riscatti verso cui Omero, il suo antifrastico Omero, fa da guida intemerata anche mostrando, con dantesco sdegno, artisti o letterati in gran numero affogati nello sterco.

Ma l'originalità di Walcott non è d'ordine ideologico, né consiste nel semplice e sbrigativo rovesciamento della tradizione ottenuto con surrettizia palinodia dell'epico fondatore di quella tradizione stessa, né altresì consiste nell'insulso e facile gioco di adattamento mitologico. Il carattere di Walcott è vera e autonoma mitopoiesi: in lui Omero stesso è mito, verità mnestica rifluente come un plancton oceanico che si ricompone in metamorfosi per nostalgia, mitica e adamitica, come già riconosceva Iosif Brodskij, fraterno estimatore del poeta caraibico. Il vincolo letterario dell'ipotesto è labile, assai forte invece, assiologicamente uguagliata all'etica eroica, è la significazione paradigmatica dei personaggi risorti. L'umiltà delle cose caraibiche si esalta qui come necessaria rinuncia al vano e al falso, come adeguazione a umana e cordiale misura, a primordiale e naturale medesimezza, a ombra e luce a tutti date sotto lo stesso sole.

Allora anche il lessico e la sintassi di un miscelato inglese, con termini ed espressioni forastiche e coloritamente idiomatiche, ottengono pieno riconoscimento di necessità stilistica, e le terzine di "esametri rozzi" in rime variate diventano mezzo d'uniformità narrativa. E questo già si sapeva dal testo originale del 1990: sette libri, sessantaquattro capitoli divisi ciascuno in tre parti, per migliaia di versi non numerati. La cura di editore e di illustratore con sintetiche note e postfazione assai appropriata (Nella macina della risacca) è merito di Andrea Molesini; suo merito ancor maggiore è la traduzione a fianco, fedele verso a verso. Delle scelte operate dal traduttore, e da lui giustificate con leale accortezza, una almeno, e fondamentale, va qui riferita: "Si è (...) cercato di restituire il senso della spontaneità e dell'improvvisazione ricorrendo a tutti gli artifici possibili, sgrammaticature comprese...".

Un esempio, fra tanti. Al cap. XXXVI, III, nella scia delle barche tornate con la bassa marea, loosened kale heaved, "un cavolo sciolto andava su e giù" sotto un pittoresco "cielo di sgombri spiaggiati", under the mackerel-shoaled sky. Il traduttore fa mostra di ben calcolata oltranza. Il cavolo è "sciolto" (cosa in sé difficile da osservare) e non "sfatto" come ci attenderemmo: ma la parola italiana corrisponde a quella assai generica dell'inglese, loosened, e non a un ipotizzabile undone, troppo gravoso e letterario; l'occhio del poeta non si deve distinguere qui dall'approssimata sensazione dei pescatori. Similmente il cielo, che si dipingerebbe in Italia "a pecorelle", conserva di necessità l'immagine marina propria dell'inglese e però la involgarisce un poco con l'improprio participio "spiaggiati", assai giornalistico e televisivo, in luogo di "arenati". Ma anche qui non sapremmo dare torto al traduttore che vuole rendere sensibile, dalla degradata micrologia poetica, l'arrendersi giornaliero dell'impresa epica e marinara alla misera banalità del vivere in terra estraniata. Trattandosi di Walcott non è fedeltà questa?

P. Fornaro

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Derek Walcott

(Castries, Santa Lucia, 1930) poeta e drammaturgo caraibico. La sua formazione è legata all’esperienza della realtà multiculturale caraibica, che si esprimerà nelle opere come ricerca di identità attraverso una armonizzazione di componenti diverse. Dopo aver frequentato a New York un corso di teatro, si è stabilito a Trinidad dove ha fondato nel 1959 il Trinidad Theatre Workshop, che ha diretto fino al 1976 e per il quale ha scritto numerosi testi. Si è occupato anche di critica d’arte come collaboratore di periodici. Nella sua opera poetica la tensione fra tradizioni letterarie differenti si risolve in un’alta padronanza formale. Tra le principali raccolte si ricordano: In una verde notte (In a green night, 1962, nt), Il naufrago (The castaway, 1965, nt), Il golfo (The gulf, 1970, nt), Un’altra...

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