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1997
1 gennaio 1997
175 p., ill.
9788877661715

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alfonso
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Splendida antologia sul cinema shakespeariano. Segnalo in particolare la stessa Martini, Durgnat (grande) e Vieri Razzini.

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recensione di Camuzio, E., L'Indice 1997, n. 6

Caso, fiuto, fortuna, tempismo, furbizia, quel che volete.Sta di fatto che, nel momento in cui Shakespeare è l'argomento più di moda, BergamoFilm Meeting dedica la sua attenzione ai rapporti fra Shakespeare e il cinema.
Facile: si va a trilogie, quella di Laurence Olivier ("Enrico V, Amleto, Riccardo III"), quella di Orson Welles ("Macbeth, Otello, Falstaff"), quella di Kenneth Branagh ("Enrico V, Molto rumore per nulla, Amleto"); ma c'è anche il dittico russo di Kozincev ("Amleto" e "Re Lear").Più cose sparse, il mitico "Sogno di una notte di mezza estate" (1935) portato sullo schermo da Max Reinhardt, il "Giulio Cesare" (1953) di Mankiewicz col duello Marlon Brando - Antonio vs James Mason - Bruto, il "Giulietta e Romeo" (1936) classicamente hollywoodiano con gli stagionati amanti Norma Shearer - Leslie Howard, l'"Amleto" (1990) di Zeffirelli con l'atletico Mel Gibson, il "Riccardo III" (1995) col sulfureo Ian McKellen e quello composito con Al Pacino (1996), l'"Otello" (1995) col nero verace Laurence Fishburne.Senza dire delle parafrasi, delle variazioni, degli ammodernamenti, delle parodie.
In realtà non è proprio così facile.Tutti (compreso lo scrivente) in occasione della presentazione dell'"Otello" di Oliver Parker del1995 sottolinearono il fatto che finalmente quell'Otello era davvero nero di pelle, come il suo personaggio, e non tinto di nero come di solito succede a teatro e al cinema.Vedendo i film proposti da BergamoFilm Meeting (mi riferisco in particolare a "All Night Long", 1961, dell'inglese Basil Dearden, bellissima trasposizione dell'Otello nell'ambiente del jazz, con esecuzioni di prim'ordine di jazzmen come Charlie Mingus, Dave Brubeck, Johnny Dankworth e altri) e scorrendo il catalogo, curato da Emanuela Martini responsabile della rassegna, ci si avvede come di Otelli neri ce ne siano stati tanti prima di Laurence Fishburne.
Insomma fra le altre cose la manifestazione bergamasca ci ha dimostrato che noi crediamo di conoscere la materia - il cinema - di cui trattiamo, magari con sicumera, ma non è così.Questo primo anno del progetto shakespeariano (continuerà infatti l'anno venturo) è stato dedicato soprattutto alla produzione anglo-americana e alle tragedie; e i materiali offertici ci hanno messo di fronte al fatto che il cinema ispirato al teatro del Bardo è molto più ricco di quanto ci immaginassimo, pieno zeppo di occasioni le più diverse e le più vitali, e anche le più bislacche.
Ci sono stati i "classici", senza dubbio (non se ne può prescindere: Olivier e Welles, Kozincev e Branagh hanno lasciato tracce con cui tutti devono fare i conti), ma anche le interpretazioni "spostate" come "Trono di sangue" (1957) di Kurosawa, bellissima, corrusca, furente rilettura fra il Nô e i film di samurai del "Macbeth", nonché cose già note "attorno a Shakespeare" ma rivelatrici di significati nuovi o comunque utili per grattar via convenzioni pigramente accettate.
Prendiamo "Vogliamo vivere" (1942) di Lubitsch, storia di una compagnia d'attori polacchi alle prese con l'invasione nazista, miracolosamente, shakespearianamente, in equilibrio fra tragedia e commedia.Non c'è solo lo spassoso momento dell'attore che si fa solennemente alla ribalta nei panni di Amleto e, dopo l'irresistibile imbeccata del suggeritore ("To be or not to be..."), attacca il monologo più famoso della storia del teatro per vedere sgomento uno spettatore di seconda fila che si alza di scatto e se ne va; non c'è solo, voglio dire, la comicità e l'ironia ma anche momenti in cui fra teatro, cinema e vita Shakespeare impone tutta la sua "autorità".Come quando l'attorucolo ebreo cui vengono sempre affidati ruoli minori trova la forza di affrontare i soldati tedeschi con le parole del "Mercante di Venezia" (che "Shakespeare, senza saperlo, ha scritto per lui"): "Se ci pungete non sanguiniamo?Se ci solleticate non ridiamo?Se ci avvelenate non moriamo? E se ci opprimete non ci ribelliamo?").
E così, in "Doppia vita" (1947) di Cukor - storia di un attore "invasato" dal personaggio di Otello, giunto a smarrire i confini tra realtà e finzione al punto che, dopo aver tentato di strangolare in scena la moglie che interpreta Desdemona, si pugnala veramente - si deve sfatare l'impressione che si tratti di una storia un po' baracconesca e di un'interpretazione d'effetto; anche se Cukor è noto come "regista delle donne", qui ottiene da Ronald Colman una prova superba, specialmente nel momento della morte "vera".
Perplesso mi hanno lasciato invece, proprio in funzione della visione "in prospettiva", le parafrasi tipo "Amaro destino" (1949) di Mankiewicz, che ha vaghi riferimenti al "Re Lear", e la fantascientifica versione della "Tempesta" in "Pianeta proibito" (1956) di F.McLeod Wilcox (si è visto anche, a proposito di fantascienza, un episodio "amletico" di "Star Trek").
Molto interessanti i risultati inediti o quasi come il "Re Lear" (1983, di Michael Elliott) che costituisce il canto del cigno dell'anziano Laurence Olivier; l'"Amleto" cine-teatrale (versione di una rappresentazione londinese girata sulla scena) diTony Richardson del1969, che propone soluzioni notevoli (l'invisibilità del fantasma paterno, per esempio; il costante tono cromatico bruno-rossastro in cui è immersa tutta la vicenda; Amleto che si inforca gli occhiali di Orazio per "vedere meglio"); un altro "Amleto", argentino stavolta (di Celestino Coronado, 1976) in cui il protagonista è sdoppiato in due gemelli che materializzano le sue due anime, quella contemplativa e quella d'azione.Senza dire degli Shakespeare muti, l'Amleto femmina del1920, con una superba Asta Nielsen - operazione audace ma "motivata" - e quello tedesco del1922: pare una contraddizione in termini parlare di film muti basati sul teatro shakespeariano ma non lo è, l'operazione funziona anche senza il risonar dei versi, non per niente ci troviamo di fronte al più prolifico e inventivo sceneggiatore che il cinema abbia mai vantato. "Shakespeare scriveva per il teatro, per il pubblico, per essere rappresentato (e vendere); perciò, è come se avesse scritto per il cinema": è un'affermazione di Emanuela Martini nel catalogo, intitolato fra l'altro "Ombre che camminano": "La vita non è che un'ombra che cammina, un povero attore che si pavoneggia e si agita", parola del Bardo).E poi, non è stato lui a presiedere all'immaginario filmico, nelprologo famoso dell'"Enrico V"? "Oh, aver qui una Musa di fuoco che sapesse salire al più luminoso cielo dell'invenzione (...) come uno sgorbio di cifre serve in breve spazio a rappresentare un milione, così lasciate che noi, semplici zeri in questo gran conto, mettiamo in moto le forze della vostra immaginazione".
Insomma un'occasione preziosa, quella offerta da Bergamo Film Meeting, per verificare come e quanto i macrotesti shakespeariani siano serviti d'ispirazione ai cineasti.Anche attraverso la parodia, che come sappiamo tutti è in fondo una forma di sviscerata ammirazione. Se "Tromeo & Juliet" (1996), film trash di Lloyd Kaufman per una casa produttrice specialista nel genere spazzatura, è soltanto una sporcellata, solo a tratti divertente, schiettamente godibili sono apparsi Peter Sellers che in un programma televisivo canta shakespearianamente una canzone dei Beatles; i Monty Python che stendono Amleto sul lettino dello psicanalista; Vincent Price che in "Oscar insanguinato" (1973, di Douglas Hickox) si vendica dei suoi critici malevoli uccidendoli uno a uno con i metodi delle tragedie scespiriane che aveva recitato; Miriam Hopkins che in "Men are not Gods" - brillante inedito di Walter Reisch del1935 - si innamora di un Otello suscitando la gelosia di Desdemona.È lei, la Hopkins, segretaria di un temuto critico teatrale, a salvare la carriera dell'attore cambiando di segno le recensioni ma causando anche spassose situazioni come quella in cui, strillando dal loggione durante la recita perché i due coniugi-attori in scena litigano di brutto, fa sospendere lo spettacolo.E prima di intonare il "God Save the King" e mandare tutti a casa, il direttore del teatro avvisa: "Shakespeare ci perdonerà se per una volta Desdemona vivrà".
No, sono convinto che Shakespeare non si rivolta nella tomba.Secondo me sghignazza pure lui.
Film shakespeariani, dunque tributari del teatro?Non necessariamente.Certo, sussistono film (di altri se ne ha solo notizia) in cui mostri sacri della scena tramandano la loro immagine sulla pellicola: dico solo immagine in quanto la faccenda per un pezzo ha riguardato il cinema muto. Un "Re Giovanni" con Herbert Beerbohm Tree porta la data del1899; da noi Ferruccio Garavaglia interpreta un "Otello" nel1909, Ermete Novelli un "Mercante di Venezia" e un "Re Lear" nel1910, un "Antonio e Cleopatra" nel1913 e un "Giulio Cesare" nel1914, mentre Ruggero Ruggeri è "Amleto" nel 1917.In Francia Paul Mounet-Sully è "Amleto" nel1909 e nel 1913 e "Macbeth" nel1910; ma l'elenco sarebbe lungo.
In fatto di mostri sacri d'altronde Sarah Berhardt era già stata un Amleto femmina nel1900, seguita nel1920 dalla danese Asta Nielsen (che però, pur essendo partita dal teatro, è una creatura del cinema).E già che siamo in tema di attrici del muto ricordiamo la nostra Francesca Bertini, Cordelia nel 1910 e recidiva come Giulietta nel 1906 e nel 1911; nonché l'americana Theda Bara, la prima "vamp" dello schermo, improbabile Giulietta nel1916.
Difficile erigere steccati fra teatro e cinema, siamo piuttosto all'osmosi, per cui non ci cureremo più di stabilire se questo o quell'attore abbia calcato le scene prima di fare del cinema.Se gli attori (di teatro) più sensibili sanno diventare sullo schermo perfetti interpreti cinematografici (vedi le lussureggianti invenzioni filmiche con cui Orson Welles fa i conti come attore agli ordini di Orson Welles regista; idem dicasi per Laurence Olivier), altri, paradossalmente (vedi il Bondarciuk dell'"Otello" russo di Yutkevic del1955), vengono dal cinema ma appaiono maledettamente "teatrali", cioè retorici e magniloquenti.E del resto un celebre attore shakespeariano come John Barrymore (Amleto in un film del 1933, Mercuzio nel1938) è ben più convincente nei ruoli brillanti della "sophisticated comedy".
Il programma shakespeariano di "Bergamo Film Meeting" 1996, a parte ogni altra considerazione, ci ha offerto un ricco campionario di interpretazioni.Se si volessero definire le caratteristiche dell'interprete shakespeariano per eccellenza ci si troverebbe in imbarazzo proprio per l'eterogeneità degli apporti.Si va dalla professionalità, come dire? interiorizzata, di apparente naturalezza degli attori inglesi (tutti o quasi hanno fatto Shakespeare, da MichaelRedgrave a Peggy Ashcroft, da Ralph Richardson a Anthony Quayle, da Leslie Banks e Robert Newton e così via) a quella "costruita", talvolta esibita con compiacimento, di altri più inglesi ancora, se così si può dire, come JohnGielgud (Cassio nel "Giulio Cesare" americano del1953, fantasma nell'"Amleto" del1970, Clarence nel "Riccardo III" del1978, Prospero in "L'ultima tempesta"), Kenneth Branagh (Enrico V, Benedick in "Molto rumore per nulla", Amleto, ma anche Iago nell'Otello di Oliver Parker), Ian McKellen (RiccardoIII nel1970, Iago nell'"Otello" del 1990, Riccardo III nelle due versioni del 1992 e del1995).E tra questi ultimi metterei naturalmente Laurence Olivier, che aveva cominciato come Orlando in "Come vi piace" e che, oltre alla trilogia e al "Re Lear" del 1963 (con un formidabile John Hurt come "Fool"), era stato Otello nel 1965.È noto che nel 1935 Gielgud e Olivier si alternavano sulle scene londinesi nei ruoli di Romeo e di Mercuzio.
Il tempo esalta certi risultati, come nel caso dell'intenso, notturno, smarrito Amleto di Innokenti Smoktunovskij (1964, di Kozincev) e della stralunata e stralunare Isuzu Tamada, una delle più infernali Lady Macbeth dello schermo ("Trono di sangue", 1957, di Kurosawa).E poi si scoprono o si riscoprono l'"Otello" muto del1922, non tanto per il massiccio Moro di Emil Jannings quanto per lo Iago di Werner Krauss, atticciato, con i baffetti loschi e i capelli impomatati da viscido bottegaio; o il favoloso "Sogno di una notte di mezza estate" di Max Reinhardt del1935, con attori di cinema solitamente in tutt'altre faccende affacendati, qui magicamente trasformati, come James Cagney-Bottom, Joe E.Brown-Flute e soprattutto Mickey Rooney-Puck, in veritabili folletti shakespeariani.

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