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In questo volume, frutto delle ricerche condotte per il convegno milanese del dicembre 2005 sul rapporto fra Napoleone, il bonapartismo e la cultura politica italiana, Alessandro Campi, docente di storia delle dottrine politiche a Perugia, già autore di uno studio sul ruolo occupato da Mussolini nell'immaginario storico degli italiani (Mussolini, il Mulino, 2001), attraverso una ricca e preziosa documentazione si ripropone di spiegare, da un angolo di visuale inedito, la "tentazione ricorrente" del potere assoluto. Non si occupa dunque di quel "complesso di Napoleone" che qualcuno ritiene di incontrare in Putin o Sarkozy, bensì d'un certo tipo di mentalità: il napoleonismo mussoliniano e berlusconiano.
Il punto di partenza viene individuato nel "fanatismo napoleonico" di Gabriele D'Annunzio, concomitante con una vera e propria moda che caratterizzò l'inizio del secolo scorso in Italia. Ne sono testimonianza le settanta pellicole con al centro la figura del generale di Francia girate fra il 1907 e il 1921, cioè già prima del fascismo. Al proposito, tra i fascisti non si registrò unanimità. Vi fu chi, spesso peraltro con lo sguardo rivolto a Giulio Cesare, paragonò Mussolini a Napoleone, giungendo a trovare fra i due numerose somiglianze fisiche e a vedere nel capo del fascismo l'erede storico dell'imperatore, in grado, beninteso, di superarlo con il proprio genio (come in Mussolini motore del secolo di Ugo D'Andrea); vi fu d'altro canto chi, ad esempio Paolo Orano, ritenne Mussolini così superiore a Napoleone da rendere ingiustificato e oltraggioso ogni accostamento, soprattutto alla luce della drammatica fine del secondo e dire che proprio quest'ultimo aspetto, più d'ogni altro, seduceva in realtà lo stesso Mussolini, per il motivo romantico delle sventure toccate agli italici geni, da Dante a Foscolo (e Napoleone, ai suoi occhi come a quelli di molti altri, era un italiano).
Nel 1928 Emil Ludwig impostò la questione in termini quanto mai netti. Egli scorgeva in Mussolini essenzialmente un politico, in Napoleone un militare; nel primo un mirabile creatore, nel secondo un fenomenale conquistatore (visione certo riduttiva nei confronti di Bonaparte). Peraltro, dopo la caduta del regime, Giuseppe Bottai, pur non arrivando a definire il fondatore del fascismo uno "pseudo-Napoleone" (Salvemini), giudicò un suo limite proprio quello di non essersi saputo adattare al contesto storico nazionale servendosi delle forze in esso presenti, invece che ostacolarle o reprimerle, e, dunque, di non essere stato un politico di rango. Anche la critica di Curzio Malaparte, formulata già fra le due guerre, toccò un nervo scoperto del mussolinismo. Era stato Napoleone, scrisse l'autore di Tecnica del colpo di stato, a inventare quella "tecnica della divinità artificiale" che Mussolini avrebbe poi semplicemente fatto propria, allo scopo di prendere il potere e tenerlo in pugno: nessun genio, nessuna innovazione, solo un'abile imitazione.
Da parte sua, Mussolini sentì sempre, nei confronti del generale corso, quella che Campi chiama una "perdurante fascinazione". Ravvisava in lui il politico capace di conservare al mondo le migliori conquiste della Rivoluzione, ponendosi come straordinario homo novus, e di avviare la rinascita dell'Italia. E non cessò mai di rispecchiarsi in quella grande figura del passato. Campi nota come, significativamente, il Mussolini del primo fascismo ammirasse in Bonaparte il legislatore, quello dell'impero il grande capo militare. Fermo restando quanto accennato sopra: "Della vita di Napoleone m'incanta l'epilogo", diceva. Cosicché non stupisce che collaborasse anche alla stesura di un'opera teatrale sui Cento giorni (Campo di maggio di Gioacchino Forzano, 1930).
E gli antifascisti? Dal napoleonismo di Mussolini essi trassero spunto per una satira tesa a ridicolizzarlo, in particolar modo attraverso vignette satiriche; alcune delle più brillanti, all'epoca pubblicate sulla stampa estera o clandestinamente in Italia, vengono qui riportate.
Nell'esaminare il rapporto fra Berlusconi, Mussolini e Napoleone, l'autore deplora come un'ampia parte della pubblicistica di sinistra abbia banalizzato tale interessante questione a fini meramente denigratori (pur non potendo negarsi, aggiungiamo noi, che al momento della sua "discesa in campo" Napoleone avesse, rispetto al suo illustre emulo di Arcore, qualche conto aperto in meno con la giustizia). In Silvio Berlusconi viene riscontrata da un lato una "forza visionaria" che lo avvicina si parva licet all'imperatore corso, e che, oltre a suscitargli una sorta di "aspirazione bonapartista", unitamente al controllo di un "impero" televisivo ha molto giovato alle sue sorti elettorali nell'era della videopolitica; dall'altro un napoleonismo di fondo, nella cui ottica Napoleone costituisce il più perfetto modello storico di self-made man. Daniele Rocca
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