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2011
1 febbraio 2011
ill.
9788884194824

Voce della critica

"Quante volte ci è capitato di ripetere: il peso delle parole": potrebbe essere l'epigrafe dell'intero volume Officina torinese che raccoglie, per iniziativa di Gianni Contessi e Miriam Panzeri, gli interventi di Paolo Fossati sulle pagine torinesi dell'"Unità". Sono testi splendidi per intensità di pensiero e qualità di scrittura; la stagione vitale e problematica degli anni sessanta è passata al vaglio di un'intelligenza lucidissima.
Vice del pittore Filippo Scroppo nel 1965 e dal settembre dello stesso anno firma principale, fino al 1970 Fossati setacciò la vita artistica torinese frequentando gli appuntamenti offerti da gallerie e musei locali oppure inseguendo le presenze cittadine nelle rassegne nazionali. Mentre si discuteva la vocazione della giovane Galleria d'arte moderna, attraverso il passaggio alla direzione Mallè nel 1966, egli pesava l'incidenza di alcune iniziative nel tessuto culturale della città: se era anacronistica la sopravvivenza delle vecchie Promotrici, e vergognosa la gestione delle esposizioni nazionali, si rivelavano comunque illusorie le novità del Museo sperimentale di Eugenio Battisti ("La rettorica e l'accademia del nuovo sono controproducenti come ogni altra forma di sottocultura") e dissennate le pretese divulgative di mostre antologiche fatte "per nascondere i vuoti logici e culturali di cui non si vuole discutere". Il giudizio era impietoso e coinvolgeva, insieme a una città talvolta ridotta alla misura di un borgo provinciale, le solite miserie italiane, per il "menefreghismo paradossale di chi con molta leggerezza siede a un tavolo di commissione tanto per una comodità di potere e di prestigio". Certo pesava nella valutazione la personalità scontrosa del critico, più disposto a sondare valori inediti nelle pieghe della realtà comune, che non soddisfatto di superficiali bilanci complessivi; ma c'era anche una giustificata diffidenza verso una nozione ottimistica d'avanguardia, sulla quale sarebbe stata poi allestita una certa mitografia torinese.
Il racconto ravvicinato fa infatti pulsare la vicenda degli anni sessanta con un ritmo diverso dalle cadenze imposte dalla storiografia recente. Se quest'ultima ha privilegiato un percorso univoco e alcune emergenze vincenti nell'intreccio incerto di quegli anni, qui ci sono generazioni a confronto; confronti fra ragioni individuali e modelli di importazione; proporzioni diverse fra ragioni del mercato e doveri delle istituzioni. È in genere il vantaggio offerto dallo spoglio delle fonti d'epoca, quando è condotto in modo sistematico e senza pregiudizi, per accertare dati, riscoprire nomi, scansare semplificazioni manualistiche. Ma gli scritti di Fossati non si limitano a increspare il profilo di quel decennio come divagazioni irrequiete dai percorsi consueti, o come sbagli inevitabili, per mancanza di prospettiva storica, rispetto agli equilibri oggi assodati (è il caso di Jim Dine alla galleria Sperone nel '65, di James Rosenquist nel '68); porgono invece l'ordito di una vicenda meno scontata, con le ombre, le inerzie, i passi falsi, le intuizioni senza seguito, le solitudini scavate nella storia ufficiale.
Fossati partecipava con attenzione alla riscoperta critica delle avanguardie storiche e del futurismo in particolare: la retrospettiva su Balla e i successivi affondi torinesi erano, nel suo giudizio, prove riuscite; nel presente egli intravedeva però il pericolo di una semplificazione paradossale dell'avanguardia, che veniva deprivata della sua originaria forza polemica e, nel suo periodico riproporsi, rischiava di ridurre la storia dell'arte contemporanea a una sequenza prevedibile di gesti trasgressivi e inutili. Non è un caso che gli scritti più inquieti su due figure capitali del futurismo (il Balla di De Marchis, il Boccioni di Birolli) sarebbero poi usciti nella collana Einaudi "Letteratura" diretta dallo stesso Fossati. Ciò che irritava il critico era infatti l'adozione dell'avanguardia come unico strumento interpretativo del Novecento, cioè "l'uso, l'abuso e il consumo beffardo di un linguaggio, dei suoi tic e delle sue trovate" al di fuori di ogni necessità storica: da qui la resistenza alle derive pop nell'arte italiana o agli inganni decorativi optical, e invece uno sguardo sensibile, nel panorama delle mostre locali, agli artisti irregolari di ogni generazione.
Lo spazio breve della recensione serviva a inoculare dubbi, porre domande e incrinare certezze; neppure l'ospitalità sul quotidiano comunista riusciva a condizionare il taglio critico su pregiudizi marxisti o su altre sicurezze dogmatiche. Fossati lavorava fuori dagli schemi, insofferente di quella che già ieri era "una fretta di sistemare e concludere, e di trascurare il gioco delle contraddizioni e delle provocazioni, che spiega molto del momento attuale, reversivo e in buona parte in fase di reazione". Come dargli torto?
Federica Rovati

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