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Non ritengo di avere sufficiente preparazione per poter apprezzare a pieno queste poesie che si rifanno a temi parnassiani, simbolisti e ad autori di cui conosco poco. Le liriche che mi colpiscono in modo diretto sono poche. Peccato davvero non averla saputa apprezzare di più. Prezioso libretto per intenditori.
Di Catherine Pozzi, pressoché sconosciuta in Italia e quasi dimenticata in Francia, le edizioni Via del Vento propongono una silloge di versi tradotta e curata da Claudia Ciardi. Nata a Parigi nel 1882 da una facoltosa e colta famiglia di lontane origini italiane, crebbe in un ambiente raffinato, a contatto con i più importanti intellettuali dell'epoca, da Proust a Colette, coltivando la passione per la poesia su modelli parnassiani e simbolisti. Dopo un matrimonio e altre relazioni sfortunate, incontrò Paul Valery con cui intrecciò una tormentosa relazione durata otto anni. Minata dalla tubercolosi e dall'abuso di psicofarmaci e droghe, morì nel 1934. La sua poesia, profondamente emotiva e immaginifica, risente degli influssi abissali e notturni di Novalis, Heine, George, muovendosi sempre nei dintorni sofferti dell'amore infelice, del distacco, della morte. La caducità dell'esistenza, il lento sfiorire della giovinezza e del corpo, lo scorrere inesorabile del tempo sono i temi predominanti nei suoi versi: «Cosa allora, donne, le vostre bellezze diverranno?/ Cosa di quel roseo incarnato/ e dello sconvolgente fulgore di quegli occhi?/...Ora la terra vi copre./ Su questo labbro scarlatto/ che sempre per l'ardente baciare si schiude/ il lombrico ha tracciato il suo cammino»; «giovinezza, dove poi ve ne siete andata.../sotto quali inamovibili marmi/ questa nuda mano?». Ma notevoli e tragicamente appassionate sono anche le poesie d'amore («viva unità senza nome e senza volto,/ cuore dell'anima, oh centro del miraggio,/ altissimo amore»); benché sembrino destinate -più che a un muto corrispondente- alla sua stessa interiorità ferita, in un soliloquio che dispera di trovare un'eco in chi ascolta: «tu vivrai, mio splendore, mia sofferenza, mia sopravvivenza,/ mio più smisurato cuore fatto del sangue che sono,/ mio alito, mio contatto, mio sguardo, mia voglia,/ mio bene più terreno nell'infinito disperso./...il giorno mio non assolvere, anima della mia follia».
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