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Non fate troppi pettegolezzi. La mia dipendenza dalla scrittura
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Non fate troppi pettegolezzi. La mia dipendenza dalla scrittura - Demetrio Paolin - copertina
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Non fate troppi pettegolezzi. La mia dipendenza dalla scrittura

Descrizione


"Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi". È l'ultima storia scritta da Cesare Pavese su un pezzo di carta, prima di lasciare i suoi lettori, la sua vita, i suoi libri. Il saggio di Paolin parte da questo finale per raccontare un inizio. Anzi, quattro inizi. Seguendo l'auspicio di Pavese l'autore mette in cortocircuito le esistenze di quattro scrittori torinesi: Emilio Salgari, Franco Lucentini, Primo Levi e lo stesso Pavese che hanno vissuto al servizio della scrittura. Demetrio Paolin incrocia le opere e i luoghi dove hanno vissuto, meditato, amato; restituisce le loro parole fino a doversene liberare per regalarle agli altri, a noi. Non fate troppi pettegolezzi è una passeggiata narrativa che riflette sull'arte, sulla ricerca della propria voce e sullo scrivere senza mettere nessuno in cattedra ma mescolando gli sguardi agli squarci biografici, dove il racconto dell'Io si amalgama con quello di tutti noi che amiamo leggere e, forse per questo, dipendiamo dalle parole, dalla scrittura.
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Dettagli

2014
6 febbraio 2014
119 p., Brossura
9788897089780

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Davide
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Questa raccolta di quattro saggi brevi è davvero una perla splendente, nel mare magnum di opere pubblicate ogni anno. Aiuta ad empatizzare con i quattro autori, a conoscerli meglio, nelle loro forze, curiosità e fragilità, ed aiuta anche a conoscere meglio la città di Torino, che fa da sfondo a tutti e quattro nel loro momento più buio: la morte, quando si chiude il sipario. Molto consigliato a tutti gli amanti della letteratura italiana.

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Voce della critica

  Lo stesso Paolin mette in guardia il lettore nella nota introduttiva a Non fate troppi pettegolezzi, prima definendolo in negativo ("non è un saggio di critica letteraria" né "un libro di fiction e di memorie"), poi, in una sorta di diminutio semplificatoria, presentando i quattro pezzi dedicati a quattro scrittori morti suicidi (Salgari, Pavese, Levi, Lucentini) come "semplici prose". Tuttavia l'indicazione più preziosa la pone in chiusura, quando conclude dicendo che un libro così ibrido può considerarsi il suo personale "esame di coscienza". E il nome di Renato Serra ("forse uno degli intellettuali più lucidi del primo Novecento"), l'ironica trascuratezza del critico verso l'oggetto del suo scrivere, viene qui chiamato in causa per capire, per contrasto, il senso di quella denunciata da Salgari. Un parlare di altri per parlare anche, garbolianamente, di sé: è questo il viaggio che Paolin compie, addentrandosi nell'esistenza di quattro autori a lui cari, accomunati dal medesimo finale di partita, dall'uscita di scena forzata del suicidio. Fa pensare anche a un amoroso risarcimento, se è vero, come ci ha insegnato lo Steiner di Tolstoj o Dostoevskij (1965), che la critica letteraria dovrebbe sempre scaturire da un "debito d'amore". Cosa cerca l'autore in queste vite? Cerca la malattia, i segni conclamati di essa attraverso la scrittura; l'identificarsi essenzialmente nell'atto stesso dello scrivere, pur affondando in ragioni e motivazioni differenti, a seconda della particolare vicenda privata di ciascuno degli autori sul quale Paolin si sofferma. Sempre mosso da un duplice scrutare, che gli fa tenere insieme l'albero di una genealogia familiare più ampia, che qui tende a ricostruire. Così, ad esempio, la vicenda diversa e insieme analoga a quella del padre (rimasto presto orfano) viene giustapposta (in un rapido passaggio) alla storia di Salgari, avendo lui preferito il talismano del lavorare sodo ai mondi immaginari dello scrittore: "Credo che mio padre per un'operazione mimetica abbia lavorato per tendere a suo padre, in una sorta di rincorsa amorosa e di inseguimento che non è molto diverso da quello che Salgari chiede ai suoi lettori". Il padre di un eroe nato già fuori tempo massimo come Sandokan, risulta, per cifra di destino, personaggio assai più moderno di quelli partoriti dalla sua penna. Affogato dai carichi della vita, Salgari, volendosi una volta per tutte sottrarre alla gabbia infernale della scrittura, si congeda dai vivi "spezzando la penna" (così nel biglietto lasciato ai suoi editori): suggello drammatico che racchiude, allineandoli nell'immagine di un gesto di stizza, vita e scrittura. Mentre raccontando di Cesare Pavese (quel Pavese per il quale ogni esperienza è dolore, che vuole essere ricordato perché ha "dato poesia agli uomini") Paolin confessa, con profondo senso d'immedesimazione, di fare i conti con la sua stessa carne (la fuga dal paese alla città, la scrittura, la solitudine): perché Pavese è un suo morto; e il saggio che scrive per ricordarlo assume l'intonazione di "una nenia verso il nulla". Scrivere di Pavese significa dire del penoso inconcepibile apprendistato all'obliterante destino dell'uomo. L'amara scoperta dell'Orfeo dei Dialoghi con Leucò (1947) è proprio questa: "Tu non sai cosa è il nulla"; così Orfeo respinge le obiezioni di Bacca. Invita a superare i castelli dell'apparenza, a computare onestamente e senza inganni, come nella raccomandazione finale del celebre biglietto di congedo, "non fate troppi pettegolezzi", parole forse non a caso vergate sul frontespizio dei Dialoghi, a chiosare la sua uscita di scena anticipata. I suicidi non sono semplicemente interpretati dall'autore di Il mio nome è legione (2009), ma piuttosto trattati come fossero parte di un testo. Sicché si potrebbe parlare, stando allo scatto verticale che Paolin imprime ai suoi saggi, di un'autentica testualizzazione delle vicende umane e intellettuali di cui narra. Evidente punto di contatto con un libro non meno ibrido come Qualcosa di scritto (2012) di Trevi. Accanto poi al leitmotiv del suicidio emerge la potente dorsale tematica di un senso di vergogna che diventa il prezzo da pagare già in vita: l'inscindibile filo che lega i morti ai vivi, i sommersi ai salvati, per usare l'endiadi leviana. E Primo Levi sarà colui il quale esprimerà, in maniera più evidente, la sconcertante e perniciosa essenza di un simile sentimento. Il complesso di colpa dello scampato, l'esser rimasto in vita al posto di un altro, lo terrà infatti per sempre in ostaggio, esiliandolo dal mondo. Un male torbido dal quale non basterà a liberarlo nemmeno l'etica del fare (si rammenti il Faussone protagonista di La chiave a stella, 1978). Leggere Levi vuol dire perciò toccare con mano questa discrasia costitutiva, riflessa pure nella disarmonia, che cade all'occhio in ogni opera del chimico-scrittore, tra il nitore del dettato e il sinistro inabissarsi nel ginepraio di nodi irrisolti. Per riportarci al senso estremo di una macchia incancellabile, Paolin ha in mente la lirica scritta da Primo Levi per l'ippocastano che stava dinanzi al suo portone in corso Re Umberto (Cuore di legno): superstite come il poeta, l'ippocastano "non vive bene", abbarbicato a un infernale sottosuolo cittadino; eppure, a differenza di lui, "non ha vergogna", è ancora in grado di sentire e godere "il tornare delle stagioni". Lanciarsi nella tromba delle scale fu il definitivo atto di resa al tormento dei demoni che si era portato dietro dal lager. In chiave di una maturata raggiunta levità, fedele al suo "magistero di leggerezza", sarebbe da leggere, al contrario, il salto di Franco Lucentini, attraversato dall'ossessione di mettere in romanzo (nelle sue prime prove da solista, I compagni sconosciuti e Notizie dagli scavi) l'istintivo bisogno della conversazione e del dialogo. Il suicidio di Lucentini somiglia piuttosto allo scatto giusto, rievoca per Paolin il guizzo del Cavalcanti rispolverato nella più celebre delle Lezioni americane (1988) da Italo Calvino. Garboli sosteneva che l'istinto di liberarsi dal demone non può che prendere, malgrado tutto, forma di scrittura, e che fosse necessario vivere da postumi ("quando si è morti si lavora benissimo"). Paolin è pronto a fargli eco, rispolverando il Benjamin lettore di Leskov, paragonando la scrittura, nelle battute finali del suo libro, a un consapevole incedere da morituri: "Si scrive perché si è sul limitare della vita, perché si sente quel tremulo sottile del sangue che gira ancora nel corpo". Si rivela, insomma, un autobiografico critico della vita, per il quale la letteratura o rimanda alla ricostruzione del senso della propria esperienza o non giova a nulla. Ecco perché si prende la licenza di sovrapporre e lasciare reagire il suo personale immaginario con quello degli autori che ha sentito a lui più vicini. Nel solco di una robusta linea genealogica che, pur con le differenti declinazioni, accomuna oramai diversi scrittori-lettori trenta-quarantenni (Caterini, Di Paolo, Marchesini). Perciò Non fate troppi pettegolezzi funziona come esame di coscienza, non solo individuale ma anche in certo senso generazionale.   Domenico Calcaterra

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Conosci l'autore

Demetrio Paolin

(1974) Vive e lavora a Torino. Ha pubblicato il romanzo Il mio nome è Legione (2009), i saggi Una tragedia negata. Il racconto degli anni di piombo nella narrativa italiana (2008) e Non fate troppi pettegolezzi (2014) e diversi studi critici su Primo Levi. Ha collaborato con il "Corriere della Sera" e "il manifesto". Conforme alla gloria, il suo secondo romanzo, uscito a sette anni di distanza dal primo, è stato tra i dodici finalisti del Premio Strega 2016.

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