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Neuropsicologia della coscienza - Anna Emilia Berti - copertina
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Neuropsicologia della coscienza

Descrizione


Il termine "coscienza" si riferisce a concetti diversi la cui definizione e il cui studio hanno fatto parte, nella storia del pensiero filosofico e psicologico, di ambiti disciplinari a volte lontani e in contrasto tra loro. L'influenza del dualismo cartesiano tra mente e corpo ha consolidato l'idea che il mentale appartenga a una realtà ontologica non catturabile dalle leggi del mondo fisico e ha impedito, per molto tempo, che lo studio della coscienza potesse rientrare nel dominio delle scienze naturali. In queste pagine Anna Berti si colloca nella prospettiva opposta. Dopo aver discusso la legittimità e i problemi metodologici che si incontrano nello studio dei processi coscienti, vengono presentate le sindromi neuropsicologiche che più hanno contribuito a svelare operazioni e strutture del mentale legate ai meccanismi della consapevolezza, non individuabili quando il cervello funziona normalmente: lo studio dei casi clinici permette di trarre delle inferenze sulla struttura e sugli aspetti funzionali e adattativi della coscienza. I dati clinici sono discussi e confrontati con quelli ottenuti dalle più moderne tecniche di indagine neurobiologica, come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e la stimolazione magnetica transcranica (TMS).
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Dettagli

2010
11 febbraio 2010
164 p., ill. , Brossura
9788833919201

Voce della critica

Sfogliando articoli o libri dedicati alla coscienza capita sovente di imbattersi nel passo di Thomas Huxley in cui "la comparsa dell'esperienza cosciente a seguito della stimolazione del tessuto nervoso" è considerata evento tanto "inspiegabile" quanto l'apparizione del genio in seguito allo strofinio da parte di Aladino della proverbiale lampada. Come tutti i conoscitori della favola sanno, non è guardando dentro la lampada che si trova traccia del genio: perché esso si manifesti, occorre saperla strofinare nel modo opportuno. Lo stesso vale a ben vedere per il cervello, con la sola, piccola, ma non marginale differenza che in questo caso il "genio" appare sempre più disperso nei circuiti e nei meccanismi che rendono la sua comparsa possibile e oggi (pace Huxley) in larga parte spiegabile. Certo, quando ci si cimenta con un problema "difficile" come la coscienza, la cautela non è mai troppa. Tuttavia, essa non può dispensarci dal far fronte alle sfide delle neuroscienze cognitive, a meno di non ridursi a una compiaciuta dichiarazione di ignoranza o di impotenza.
Di queste sfide non ha timore Anna Berti che nel suo Neuropsicologia della coscienza ci mostra come sia il significato funzionale della coscienza sia la stessa esperienza soggettiva cosciente possano essere oggetto di indagine scientifica. Lontana da tutti gli "ismi" che appassionano molti di quelli che discettano di coscienza, Berti fa propria la lezione dei suoi maestri (Edoardo Bisiach e Giacomo Rizzolatti), descrivendo con estrema chiarezza le forme base della nostra esperienza cosciente. Lo strumento è quello della neuropsicologia, capace di combinare i racconti in prima persona dei pazienti con l'analisi in terza persona dei dati ottenuti grazie a paradigmi sperimentali controllati e replicabili. L'obiettivo è far vedere come "la coscienza non [abbia] una struttura monolitica e individibile, ma una forma composita sostenuta dall'attività di meccanismi cerebrali diversi, probabilmente localizzati in aree cerebrali distinte".
Evidenze in tal senso sono offerte da alcuni disturbi neuropsicologici, quali, per esempio, la sindrome dello split-brain, il cui studio permette di evidenziare il diverso contributo dei due emisferi cerebrali alle differenti forme di coscienza di sé, o i casi blindsight, che mostrano non solo come l'elaborazione dello stimolo visivo possa avvenire in assenza di consapevolezza, ma anche come possano esservi forme di consapevolezza visiva prive di "visione fenomenica". Bene fa Berti a ricordare che un conto solo le "scelte forzate" cui i pazienti blindsight sono chiamati durante i test sperimentali e che ad alcuni hanno suggerito la possibilità teorica dell'esistenza di zombie (esseri viventi capaci di ripondere agli stimoli esterni pur non avendone consapevolezza), un altro sono i comportamenti spontanei in contesti naturali, dove è evidente che solo quando raggiunge un formato fenomenico l'elaborazione dell'informazione sensoriale può svolgere un ruolo nella scelta e nella direzione dell'azione: prova ne è che i pazienti blindsight non riescono a imparare a rispondere in maniera spontanea ed ecologicamente appropriata a stimoli di cui non hanno esperienza cosciente.
Le pagine più affascinanti e più dense di implicazioni filosofiche sono forse quelle dedicate alla coscienza spaziale e alla consapevolezza motoria, indagate attraverso l'analisi della eminegligenza spaziale e della anosognosia per l'emiplegia, sindromi al cui studio Berti ha dedicato gran parte dei lavori sperimentali che l'hanno consacrata a livello internazionale. Due sono i punti che mi preme qui sottolineare. Anzitutto, il fatto che l'eminegligenza spaziale indica come la codifica degli stimoli visivi possa raggiungere livelli assai sofisticati quali quelli dell'elaborazione categoriale e semantica senza che per questo vi sia consapevolezza esplicita di essi, dal momento che quest'ultima ha nella rappresentazione dello spazio un pre-requisito fondamentale. Non a caso, nel volume viene liberamente ripreso un passo di Merleau-Ponty, per cui "lo spazio" sarebbe "il mezzo attraverso cui le cose diventano possibili". Al pari dell'autore della Fenomenologia della percezione, anche Berti considera la coscienza "un processo inestricabilmente legato all'organizzazione delle risposte motorie che (…) danno un senso all'elaborazione consapevole degli stimoli". La stessa dissociazione in pazienti con neglect tra "vicino" (spazio peripersonale) e "lontano" (spazio extrapersonale), così come il fatto che il primo possa essere rimappato nei termini del secondo (e viceversa) in base al programma motorio in atto, sembrano suggerire che la coscienza in quanto spazialmente determinata sia un processo dinamico modulato dalla natura e della portata delle nostre azioni.
Ciò è ancor più evidente nel caso dell'anosognosia per l'emiplegia che Berti ritiene dovuta primariamente a un deficit di natura intenzionale. Esso non riguarda, però, l'intenzionalità motoria in quanto tale, che appare intatta nei pazienti emiplegici anosognosici, bensì il meccanismo di controllo che compara le anticipazioni generate dalla codifica dell'intenzione motoria con i feedback sensoriali. Che un individuo abbia coscienza motoria e fenomenica di un'azione dipende dal fatto che egli sia in grado di rappresentare una siffatta azione e di pianificarne l'esecuzione. Ciò vale anche nel caso in cui l'individuo è emiplegico e l'azione fisicamente impossibile. Perché siffatta coscienza sia veridica è necessario che il soggetto sia capace di distinguere l'azione intesa dall'azione eseguita, ovvero di riaggiornare la propria consapevolezza motoria sulla base dei feedback sensoriali esterni, cosa che i pazienti emiplegici anosognosici non riescono a fare.
Tutto ciò mostra come la neuropsicologia possa gettare luce nuova su aspetti base della coscienza, suggerendo un modo diverso di declinare la stessa relazione tra dimensione funzionale e natura fenomenica, e offrendo la possibilità di ripensare alcuni temi chiave della riflessione filosofica sul mentale, a cominciare dal binding problem, ossia come mai, nonostante l'estrema segregazione dei processi neuronali sottostanti, la nostra esperienza cosciente sia sempre (veridica o meno) esperienza di un mondo. Questo nella migliore tradizione di quella "filosofia naturale", che da sempre ha affrontato le questioni teoriche che emergono dalla ricerca empirica, senza volere imporre a quest'ultima un'agenda di problemi (e di soluzioni) stabilita a priori, magari presa a prestito più o meno dichiaratamente da questo o quel sistema filosofico.
Corrado Senigaglia

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