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Mussolini l'alleato. Vol. 2: guerra civile (1943-1945), La. - Renzo De Felice - copertina
Mussolini l'alleato. Vol. 2: guerra civile (1943-1945), La. - Renzo De Felice - copertina
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Mussolini l'alleato. Vol. 2: guerra civile (1943-1945), La. - Renzo De Felice - copertina
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Descrizione


In questi capitoli finali, la figura di Mussolini si intreccia con i drammatici eventi che preludono alla fine della sua vita e della ventennale esperienza del fascismo; la biografia, il ritratto dell'uomo, si trasforma nella rappresentazione corale degli italiani in un periodo cruciale della loro storia.
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Dettagli

1998
Tascabile
1 gennaio 1996
Libro universitario
760 p.
9788806149963

Valutazioni e recensioni

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marco
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Il volume sulla guerra civile (1943-1945) di De Felice è purtroppo incompleto arrivando a coprire gli eventi fino all'inizio della repubblica sociale. La narrazione parte dalla prigionia ed evasione di mussolini ma il corpo dell'opera è costituito dal conflitto tra fascisti e partigiani. In questo contesto lo storico non trascura di analizzare l'atteggiamento delle masse popolari dopo l'armistizio dell'8 settembre mostrando come spesso l'atteggiamento diffuso fosse l'estraneità rispetto alle lotte di resistenza. L'opera si fa apprezzare per competenza ed equilibrio cosa non facile da riscontrare in opere che trattano di quel periodo

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Voce della critica


recensione di Rusconi, G.E., L'Indice 1997, n. 9

"Ridurre gli avvenimenti del 1943-45 alla contrapposizione antifascismo-fascismo e alla lotta armata tra resistenza e Repubblica sociale italiana non è in sede storica sufficiente". In questa semplice frase, che compare nel cuore del volume "Mussolini l'alleato.La guerra civile 1943-45", sta tutto il "revisionismo" di Renzo De Felice. Con il suo equivoco di fondo che è nel contempo una sfida alla storiografia di sinistra.
L'equivoco sta nel "non detto" della frase citata, ovvero nel fatto che lo storico annuncia una prospettiva di ricerca che egli stesso sviluppa sostanzialmente soltanto nella sua dimensione critica negativa. La soluzione del problema posto da De Felice, infatti, non sta nella precisazione che accompagna la citazione, secondo la quale la semplice contrapposizione fascismo-antifascismo "non basta a spiegare compiutamente né i rapporti interni alla resistenza e di questa con gli alleati né quelli della Rsi con la Germania". Questo è vero. Ma il punto critico non è tanto quello di spiegare meglio e compiutamente i rapporti tra resistenza, alleati e Repubblica sociale italiana, quanto di offrire un'ottica storica alternativa più ampia. Un'ottica che non solo dia il giusto posto all'"attendismo" di molta parte della popolazione (sinora tenuto ai margini della storiografia), ma che spieghi le vicende di quegli anni meglio delle storiografie esistenti. Senza ignorare le conseguenze etico-politiche (una dimensione e un'espressione che De Felice volentieri evoca) che derivano dal rimuovere dagli avvenimenti del 1943-45 la centralità del contrasto fascismo-antifascismo.
Tutta la ricerca di De Felice, soprattutto nella sua fase finale, è consistita nel tentare di definire che cosa debba essere messo al posto della contrapposizione fascismo-antifascismo per spiegare storicamente gli avvenimenti 1943-45 e oltre. Impresa difficilissima perché De Felice, a differenza di qualche altro storico che dice di richiamarsi a lui, non ha mai inteso cancellare "tout court" quella contrapposizione.La voleva collocare in un "quadro più ampio" e in "un'unica storia d'Italia". Tanto meno De Felice intendeva mettere sullo stesso piano etico-politico fascismo e antifascismo - come fa qualche altro storico che pure si richiama a lui.
Il referente storico (ma anche etico-politico) che secondo De Felice dovrebbe costituire "il quadro più ampio" entro cui collocare le vicende del 1943-45 è la "nazione italiana". Ma la nazione italiana che lo storico si trova dinanzi è un soggetto lacerato, distrutto politicamente e moralmente.
Sorgono allora interrogativi importanti sul senso della ricerca defeliciana. Dopo aver criticato le "vulgate" resistenziali, che avrebbero pietosamente inventato una storia positiva unilaterale dell'Italia antifascista, non sembra esserci altra storiografia che quella "in negativo" della crisi della nazione italiana. Ma - ci chiediamo - la Repubblica democratica è nata soltanto da quella storia negativa, da quella serie di eventi catastrofici (emblematicamente sintetizzati nell'8 settembre), senza altre ragioni di legittimazione?
Di fronte a questo interrogativo la posizione di De Felice si rivela incongruente (o, se vogliamo, incompiuta) quando denuncia le debolezze dell'antifascismo, soprattutto di sinistra, ma insieme non nasconde il suo apprezzamento (sia pure critico) verso un personaggio come il liberale Alfredo Pizzoni, presidente del Clnai fino al 27 aprile 1945, o (in altri contesti) verso Alcide De Gasperi - quasi che questi non fossero stati contemporaneamente sinceri antifascisti e buoni patrioti e non avessero contribuito a costruire la Repubblica democratica.
Talvolta si ha l'impressione che lo storico De Felice, tutto preoccupato di criticare la "vulgata" di sinistra dell'antifascismo resistenziale, rimanga paradossalmente vittima dell'assunto ideologico di sinistra che l'unico antifascismo che conti sia quello comunista, azionista e socialista. Ma questo semplicemente non è vero dal punto di vista storico, se si guarda cioè a come "di fatto" si è svolta la vicenda e come è nata la Repubblica. Lo storico dovrebbe spiegarci questo dato di fatto, non limitarsi a smontare le interpretazioni ideologiche. De Felice enuncia questo principio - ed è suo merito aver incominciato ad applicarlo al periodo ideologicamente più corazzato della nostra storia -, ma i risultati cui arriva non sono sempre convincenti.
Con il volume dedicato alla "guerra civile", De Felice voleva concludere quella che comunemente viene definita la sua "monumentale" biografia su Mussolini. In verità, nonostante il titolo centrato su Mussolini, la figura del Duce in questo volume perde centralità e coerenza: è travolto, per così dire, da una storia più grande di lui. I dilemmi irrisolti e le contraddizioni di Mussolini sono più che mai riflesso e parte delle contraddizioni del vero protagonista della storia che De Felice vuole raccontare: la storia della nazione italiana e delle sue istituzioni in preda a una crisi mortale dopo l'8 settembre. E questa crisi si proietta oltre il suo orizzonte storico (1943-45), fino a influire, attraverso le scelte dei primi anni del dopoguerra, sulla qualità della democrazia repubblicana, condizionando così nelle sue estreme conseguenze la situazione odierna. In nessun altro lavoro di De Felice come in questo il piano storico-scientifico e quello etico-politico si intersecano e collidono alzando enormemente la sfida.
Il volume è strutturato in quattro capitoli, rispettivamente dedicati alla vicenda di Mussolini dopo il 25 luglio ("un âdefunto' torna in scena"), alla "catastrofe nazionale dell'8 settembre", al "dramma del popolo italiano tra fascisti e partigiani" e al "crepuscolo senza alba" della Repubblica sociale italiana.
Nonostante questa sequenza lineare il lavoro è tutt'altro che semplice e compiuto nel suo sviluppo. Nel denso capitolo centrale dedicato al "dramma del popolo italiano" la narrazione e l'analisi arrivano fino alla primavera del 1945, mentre la storia della Repubblica sociale italiana si ferma alla primavera del 1944. Soprattutto il libro non ha una conclusione, nonostante robuste anticipazioni di giudizio siano presenti qua e là. La mole della documentazione e la complessità dei giudizi che di volta in volta l'accompagnano e la intercalano non trovano un assestamento finale soddisfacente. Questo modo di procedere tradisce qualcosa di più di una ricerca interrotta. L'assenza di una sintesi conclusiva, che tiri le fila delle lunghe analisi di dettaglio, non è imputabile semplicemente alla prematura scomparsa dello storico, ma a difficoltà intrinseche al suo impianto di analisi e di giudizio.
Nel bel mezzo del libro c'è una pagina che può considerarsi la chiave dell'intera ricerca. Merita di essere riportata integralmente: "Allo stato degli studi molto si sa (o è documentato) sulla resistenza e, seppure in misura minore, sulla Rsi. La vera lacuna è costituita dall'assenza di un quadro di riferimento generale (...) nel quale si collochino la resistenza e la Rsi (che in sé e per sé coinvolsero una minoranza della popolazione delle regioni nelle quali furono presenti); ma nel quale trovi il suo posto anche "la condizione umana" di quegli anni, con i suoi molteplici stati d'animo, problemi morali e di vita materiale, speranze, delusioni ecc. Una condizione umana a determinare la quale concorsero profondamente: "a") l'andamento generale delle operazioni belliche e specialmente della guerra civile (...); "b") il tipo e il grado del consenso di cui il regime fascista aveva goduto, dato che il suo crollo non si tradusse in genere in un più o meno marcato ritorno ai comportamenti e ai valori prefascisti, ma in un atteggiamento psicologico-culturale in cui i vecchi comportamenti e valori trovavano posto solo in parte, mentre altri, acquisiti negli anni del regime, continuavano inconsapevolmente ad essere in qualche misura presenti; e soprattutto "c") la crisi morale causata dal trauma dell'8 settembre che gravò sulla maggioranza della gente, su tutti coloro cioè che al momento dell'armistizio non fecero una consapevole scelta pro o contro la Rsi".
Si può dire che in questa pagina ci sia tutto lo schema interpretativo defeliciano: la dichiarazione di intenti dello storico per una storia che superi il contrasto resistenza-Rsi; il rilievo dato alla popolazione, anzi alla "condizione umana" che essa in qualche modo incarna e che viene identificata in tre elementi precisi: il trauma dell'8 settembre, la guerra civile, la trasformazione del consenso al regime fascista in cauta apertura al nuovo ordine politico che si sta annunciando.
Sulla qualità e sulla consistenza del sostegno della popolazione alla resistenza ci sono nel volume alcuni passi significativi. "Se si considera l'intero periodo dell'occupazione e della guerra civile da essa innescata, coloro che con il passare del tempo riuscirono realmente a non prendere assolutamente posizione furono solo una minoranza, più o meno consistente a seconda delle situazioni locali". E ancora, più avanti (con qualche tipica tortuosità di stile), leggiamo: "Talvolta grazie ad un processo di revisione dell'iniziale atteggiamento di estraneità rispetto ad entrambe le parti in lotta, spesso tutt'altro che facile, poiché il ripudio e la condanna del fascismo e il mancato consenso alla Rsi non costituivano sovente un motivo sufficiente per consentire con l'azione dei partigiani e con i loro programmi per il dopoguerra e perché specie a livello borghese pesante era il condizionamento della paura di fare passi falsi; in altri e più numerosi casi per mera opportunità. Per mera opportunità, non per opportunismo ché (...) parlare tout court di opportunismo ci pare nella maggioranza dei casi eccessivo e soprattutto troppo semplicistico". Insomma: i sostenitori del fascismo repubblicano erano pochi, i simpatizzanti per la resistenza erano più numerosi, anche se molto meno di quanto non affermi "la retorica resistenziale". Ma ciò che conta è la "grande zona grigia composta da coloro che si sforzavano di sopravvivere tra gli uni e gli altri, per dirla con Mussolini con ârassegnato fatalismo' e che è impossibile qualificare socialmente perché era espressa da tutti indistintamente i ceti, compresi, checché sia stato spesso sostenuto, quelli operai".
Siamo dunque alla questione del consenso all'antifascismo resistenziale che - come è noto - è motivo di vivace controversia tra gli storici. Ritengo che la questione non si risolva con conteggi materiali più o meno plausibili, ma approfondendo l'analisi sulla capacità di attrazione e di repulsione delle grandi opzioni ideali e politiche che si confrontavano allora in una comunicazione pubblica molto ristretta e deformata. I limiti della comunicazione sono un dettaglio che non va trascurato quando si parla di consenso e di dissenso nell'Italia del 1943-45.
All'interno di questa problematica De Felice si concentra su due elementi particolari: sul ruolo dominante dei comunisti nella gestione politica e ideologica della resistenza e, sull'altro fronte, sulla componente nazional-patriottica (al limite afascista) di alcuni settori della Rsi.
Questo secondo aspetto riveste molta importanza nella ricostruzione di De Felice, perché si inquadra nella tesi generale della guerra civile come crisi della e nella nazione italiana. Molti militari che si schierano con la Rsi non lo fanno per filofascismo, ma per patriottismo, entrando spesso in conflitto con la linea "politica" del neofascismo. In quest'ottica, viene presentato un personaggio molto popolare nella Rsi: Junio Valerio Borghese, il capo della X Mas, una formazione militare che viceversa in molta memorialistica partigiana appare come l'espressione più intransigente del neofascismo repubblicano. De Felice, mettendo in luce gli atteggiamenti "apolitici" e "nazionalisti" di Borghese, non indulge ad alcuna "riabilitazione" nazional-patriottica di quel tipo di militari di cui evidenzia cecità e contraddizioni.
Ma il quadro che esce da questa analisi è un importante passo in avanti nella conoscenza del mondo della Rsi - o meglio delle motivazioni soggettive dei suoi sostenitori. Compresa la famosa/famigerata XMas, di cui vengono ricordati "tre stadi: 1) la X combatte per l'onore della patria; la sua guerra è contro il nemico invasore dell'Italia e non ideologica e di partito, che divide gli italiani invece di unirli nel nome della patria, e dunque la X non combatte i partigiani; 2) se però i partigiani si accaniscono contro di essa, vendichi i suoi morti; 3) ogni forma di clemenza verso i partigiani dettata al governo o al partito fascista da considerazioni di ordine politico non può essere accettata e non riguarda la X: i nemici attivi della patria, coloro che uccidono chi ne difende l'onore e il territorio non possono trovare clemenza". Basta questa citazione per intravvedere le esplosive contraddizioni di quel corpo scelto militare, emblematico per l'intera Rsi.
Veniamo al ruolo egemonico dei comunisti nella resistenza. De Felice distingue nettamente il riconoscimento dell'efficienza e dedizione alla lotta antifascista dei comunisti dalla denuncia del loro intento politico antidemocratico. A questo proposito De Felice non cerca attenuanti, non fa grandi distinzioni e sfumature. A sostegno della ripresa delle tradizionali posizioni critiche della letteratura e memorialistica anticomunista (anche di tradizione liberaldemocratica) lo storico porta oggi le recenti scoperte negli archivi dell'ex Urss. "La disponibilità degli archivi russi non lascia ormai più dubbi sul fatto che la politica del Pci fu concepita e diretta da Mosca in funzione della realizzazione dei propri obiettivi di espansione diretta e indiretta e che i dirigenti comunisti italiani aderirono totalmente ad essa".
Anche qui - ammesso che la spiegazione sia così semplice - rimangono interrogativi decisivi che lo storico non affronta. Che la storia politica italiana abbia preso un'altra strada, che i comunisti, a dispetto dei loro intenti rivoluzionari, abbiano contribuito a metter in moto una democrazia, sia pure imperfettissima, dopo un ventennio di dittatura - sono "dati di fatto" che richiedono una spiegazione. Non mi sembra sufficiente continuare a ribadire le cattive intenzioni dei comunisti che avrebbero pregiudicato quel poco di buono che c'era nella resistenza democratica. Da uno storico come De Felice, che contrappone la sua storia "oggettiva" a quella "ideologica", ci saremmo aspettati che dopo aver fermamente criticato la "vulgata" di sinistra ci spiegasse perché dalle cattive intenzioni comuniste è uscita (magari preterintenzionalmente) un'altra cosa.
La domanda è legittima perché giustamente De Felice, a differenza di altri storici, non imputa alla incombente "guerra fredda" la spiegazione dei tratti caratterizzanti la democrazia italiana, ma fa risalire esplicitamente agli eventi del 1943-45 la formazione degli orientamenti di fondo che determineranno la politica del primo dopoguerra.
Questi miei rilievi critici non tolgono nulla al riconoscimento che il volume di De Felice sia uno di quei lavori scientifici da cui si esce più ricchi non solo di conoscenze, ma di dubbi e interrogativi che spingono avanti la ricerca. Dopo questo lavoro la storiografia sulla guerra civile 1943-45 non potrà più essere la stessa. Anche se aspettiamo ancora chi "sulle spalle" di De Felice - e di altri storici - risponda ai quesiti che ci siamo posti.

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