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La morte e la primavera - Mercè Rodoreda - copertina
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morte e la primavera

Descrizione


L'autrice è una delle figure più apprezzate della letteratura catalana contemporanea e "La morte e la primavera" è un testo, come lei stessa scrive, "terribilmente poetico e terribilmente nero, un romanzo d'amore e di solitudine infinita".
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Dettagli

2005
17 febbraio 2005
260 p.
9788838920059

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La morte e la primavera, una straziante storia di amore e di morte. Una scrittura eccelente. Adoro questa scrittrice.

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Voce della critica

"Ci sono romanzi che ti si impongono. Altri devi tirarli fuori da un pozzo senza fondo" dice Mercè Rodoreda. Accanto ai romanzi più noti di questa straordinaria scrittrice, La piazza del Diamante (1962) e Lo specchio rotto (1974), entrambi pubblicati in Italia da Bollati Boringhieri, La morte e la primavera , che è quello da lei più amato, si presenta come un'opera inclassificabile, imposta come una condanna, la condanna pesantissima a discendere nel pozzo senza fondo della coscienza fino alle acque più scure e limacciose, fino alle soglie estreme del dicibile, fino a quel che neppure si può guardare.
Scritto e riscritto nel corso di una vita, già terminato nel 1961 e poi ripreso più volte fino alla morte, sopraggiunta in seguito a un cancro nel 1993, La morte e la primavera esce postumo, nel 1986, in un'edizione curata da Nuria Folch, ed è ora presentato in Italia nella bella e sensibile traduzione di Brunella Servidei, con un'appendice che raccoglie i dodici capitoli di una redazione posteriore nella quale è dato cogliere l'attentissimo lavoro di denudamento della scrittura che caratterizza l'autrice.
È un romanzo che parla soprattutto della morte, come si vede fin dal titolo, attingendo alle infinite "morti e risurrezioni dell'anima" menzionate dalla stessa Mercè Rodoreda nella prefazione allo Specchio rotto , che è una sorta di manifesto della sua narrativa.
La morte e la primavera è un libro inclassificabile, oscuro e perturbante, difficile da apparentare con altre esperienze letterarie, nel quale il lettore si trova confuso, sorpreso e sempre più turbato, tentato di abbandonare la lettura così come ci si coprono gli occhi dinanzi a scene raccapriccianti, eppure spinto a continuare, come sbirciando fra le dita quel che non si può o non si deve vedere.
Il turbamento nasce fin da subito, dall'oscillazione fra un mondo fantastico che è tipico dell'universo fiabesco (ma si sa quanto le fiabe affondino le radici in territori oscuri della coscienza), e un inferno primordiale di durezze e crudeltà ai limiti dell'umano. In un villaggio di poche case dipinte di rosa, coperte di glicini in primavera, circondato d'acque che s'inabissano sotto le rocce di una montagna coperta d'erica, entro un paesaggio di prati e di boschi, di fonti e di pietre, uomini, uccelli, insetti e animali vivono dominati dalle leggi spietate della natura e da inspiegabili tradizioni arcaiche e crudeli. Tutto nasce e muore senza spiegazione, ogni essere respira e non sa perché respira, muore e non sa perché muore, uccide e non sa perché uccide. Sotto gli occhi del lettore stupefatto il mondo sospeso della fiaba si trasforma in labirinto di orrori.
A poco a poco si scopre che accanto al villaggio c'è un bosco scuro, di grandi alberi, il bosco dei morti. Inchiodato a ogni albero il nome di un morto. Ma questo è poco. Ogni tronco d'albero, fisicamente, contiene un morto. Quando qualcuno sta per morire, il fabbro prepara il suo nome su una placchetta di metallo, poi, perché l'anima non fugga via, al moribondo viene riempita la bocca di cemento, e infine il corpo viene rinchiuso in un tronco. Al villaggio qualcuno dice che bisogna lasciar morire ai morti la loro morte, ma prevale la tradizione dei vecchi, e molti godono allo spettacolo della morte imposta. I bambini vengono chiusi negli armadi perché non possano assistere alle pubbliche esecuzioni rituali che coinvolgono l'intero villaggio.
E il lettore, nell'apprendere queste cose, stenta a credere a quel che legge, anche perché colui che narra in prima persona, e che all'inizio del libro è un bambino, non capisce del tutto ciò che avviene. Ma le sorprese di questo tipo, gli slittamenti dal piano della descrizione di una natura quasi idilliaca allo sprofondamento negli abissi della crudeltà si presentano di continuo in queste pagine, rendendo arduo il procedere, in un percorso che si fa assurdo ed estremo, e nel quale è possibile sopravvivere solo a patto di mettere da parte ogni normale attesa e pregiudizio. E strada facendo scopriamo a ogni passo, con crescente orrore, che qualcosa di ciò che leggiamo ci appartiene, non possiamo non riconoscerlo come nostro, e ci costringe a metterci in discussione, inorriditi e mai assolti.
C'è anche molto amore in questo libro, un amore che non sa dirsi come tale, il semplice sentire, il semplice agire e subire del protagonista e di altri personaggi inermi, che crescono e vivono una vita dove le cose accadono senza che le si capisca, dove le persone si incontrano, si congiungono e si respingono senza una spiegazione, senza un sistema di riferimento in cui inserire gli eventi, i sentimenti, le paure, le morti. Forse ogni vita è così, quando la si ripulisce dei discorsi.
Nel disagio che cresce, mentre si legge e si continua a leggere con raccapriccio un racconto arduo nelle sue semplici parole, non si può non provare ammirazione per il coraggio di questa donna che si dibatte con l'indicibile, usando come sola arma una scrittura che è canto dell'essenziale. Scendere così a fondo dentro se stessi, in un'oscurità brulicante di fantasmi è spaventoso, e non è facile restarci a occhi aperti, abbastanza a lungo da poter dire quel che si vede, quel che si tocca, l'orrore e l'angoscia, il sentire primordiale dello spavento di essere uomini, di essere vivi, di dover morire, di dover vivere e dare la vita e non sapere perché. "Solo questo affanno di addormentarsi e di svegliarsi e di sentirsi una vita che non sai da dove ti viene e che scapperà senza che tu sappia perché te l'hanno data e perché te la prendono. Prendi, questo e questo e questo. E adesso basta".
Un ultima cosa. In una casa di pietra sopra il villaggio vive il signore, un tiranno storpio e morente che non vuole morire. È facile leggervi un'allegoria della vicenda spagnola, in un romanzo scritto quando Mercé Rodoreda stava vivendo un lungo esilio, che durava dalla fine della guerra civile. Eppure è possibile accogliere questa figura, così come altre grandi e piccole di questo libro, evitando la lettura politica, la lettura psicoanalitica, la lettura interpretativa. Forse è meglio lasciar scivolare questo magma di angoscia senza cercare soluzioni. Non so se sia il modo giusto di leggere questo libro difficile, è un suggerimento. Ho l'impressione che Mercè Rodoreda non volesse farsi interpretare. La morte non si spiega, e la primavera può far nascere vite brutali.

Maria Nicola

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Conosci l'autore

Mercè Rodoreda

1908, Barcellona

Scrittrice spagnola di lingua catalana, esordisce nel 1938 con il romazo Aloma (riscritto nel 1969), cui segue Colpo di luna. Ventidue racconti (1958), scritto durante l’esilio a Ginevra.È la scrittrice più letta e tradotta della letteratura catalana. Politicamente impegnata nell’attività antifascista, dopo la vittoria di Franco sceglie la via dell’esilio. Tornerà in patria solo nel 1972. Ricordiamo i grandi romanzi La piazza del Diamante (1962), storia narrata in prima persona di una donna del popolo durante la guerra civile spagnola, e Lo specchio rotto (1974), ricostruzione dell’ambiente borghese a Barcellona dagli inizi del secolo ai nostri giorni. Da citare anche i racconti di Quanta, quanta guerra (1980).In Italia è stata...

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