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Descrizione


Davvero esistono lì fuori leggi di natura, che stanno in attesa di essere scoperte, indipendenti dal nostro modo di pensare, o esse rappresentano soltanto la descrizione più conveniente di ciò che abbiamo visto? Come è nata lidea stessa di leggi di natura? Queste costituiscono la realtà profonda o sono soltanto pezzi di un regolamento che ci siamo dati per organizzare meglio la nostra conoscenza del mondo? o semplici paletti che piantiamo e ci lasciamo alle spalle come segnali via via che procediamo nella giungla dellesperienza? È possibile che non esistano affatto leggi di natura? Forse esse, e anche luniverso che da esse sembra regolato, sono del tutto creazioni della nostra mente: unillusione che scompare appena cessiamo di pensarvi. Ma allora, che cosa accadrebbe, se non ci fossero osservatori delluniverso?». Interrogativi di questo genere, che incontriamo sulla soglia del Mondo dentro il mondo, sarebbero suonati eccentrici fino a qualche anno fa. Oggi, al contrario, circoscrivono il centro stesso della riflessione scientifica, dove infuria ormai una disputa appassionata fra teorie del tutto, che vorrebbero avvolgere gli eventi del mondo, sin dai suoi inizi, in ununica rete teorica. Una delle più sconvolgenti fra tali teorie è stata sviluppata proprio da Barrow e da un illustre fisico, Frank J. Tipler: la teoria del principio antropico. Estremamente ardua e paradossale, essa riesce a mettere in connessione limmensità delluniverso con la sua percezione da parte dellocchio delluomo. E proprio nelle pagine di questo libro si troverà la prima esposizione discorsiva di tale teoria, accompagnata dalle varie obiezioni che essa ha incontrato. Ma il disegno di Barrow è qui piuttosto di usare la nuova teoria, insieme a molte altre, discusse con sapienza e unalta capacità esplicativa, per mostrare come tutte convergano verso quegli interrogativi ultimi che a lungo la scienza aveva accantonato definendoli, con malcelato spregio, «problemi filosofici». Eppure, non è certo la filosofia ad aver fatto breccia nel duro cuore degli scienziati, insinua Barrow. È la natura stessa o almeno la scoperta di «alcuni degli insoliti modi, secondo i quali sembra che essa operi» a obbligarci a questo passo.
Il mondo dentro il mondo è apparso per la prima volta nel 1988.
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Dettagli

3
1991
4 novembre 1991
492 p.
9788845908736

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Davvero esistono “lì fuori” leggi di natura, che stanno in attesa di essere scoperte, indipendenti dal nostro modo di pensare, o esse rappresentano soltanto la descrizione più conveniente di ciò che abbiamo visto? Come è nata l’idea stessa di “leggi di natura”? Queste costituiscono la realtà profonda o sono soltanto pezzi di un regolamento che ci siamo dati per organizzare meglio la nostra conoscenza del mondo? o semplici paletti che piantiamo e ci lasciamo alle spalle come segnali via via che procediamo nella giungla dell’esperienza? È possibile che non esistano affatto leggi di natura? Forse esse, e anche l’universo che da esse sembra regolato, sono del tutto creazioni della nostra mente: un’illusione che scompare appena cessiamo di pensarvi. Ma allora, che cosa accadrebbe, se non ci fossero osservatori dell’universo?». Interrogativi di questo genere, che incontriamo sulla soglia del Mondo dentro il mondo, sarebbero suonati eccentrici fino a qualche anno fa. Oggi, al contrario, circoscrivono il centro stesso della riflessione scientifica, dove infuria ormai una disputa appassionata fra teorie del tutto, che vorrebbero avvolgere gli eventi del mondo, sin dai suoi inizi, in un’unica rete teorica. Una delle più sconvolgenti fra tali teorie è stata sviluppata proprio da Barrow e da un illustre fisico, Frank J. Tipler: la teoria del principio antropico. Estremamente ardua e paradossale, essa riesce a mettere in connessione l’immensità dell’universo con la sua percezione da parte dell’occhio dell’uomo. E proprio nelle pagine di questo libro si troverà la prima esposizione discorsiva di tale teoria, accompagnata dalle varie obiezioni che essa ha incontrato. Ma il disegno di Barrow è qui piuttosto di usare la nuova teoria, insieme a molte altre, discusse con sapienza e un’alta capacità esplicativa, per mostrare come tutte convergano verso quegli interrogativi ultimi che a lungo la scienza aveva accantonato definendoli, con malcelato spregio, «problemi filosofici».

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Voce della critica


scheda di Rasetti, M., L'Indice 1992, n. 7

Nel disegno, certo complesso, articolato e non banale, del libro di Barrow si percepiscono due obiettivi in qualche modo antitetici. Essi sono intrecciati e mescolati intimamente in maniera talora inestricabile e la raffinata dialettica dell'autore rende spesso difficile coglierne la contraddizione, la sottile ambiguità, ma una lettura attenta non può non metterli inequivocabilmente in luce: da un lato la tesi che la teoria scientifica in generale - la fisica in particolare - sia giunta ormai a doversi porre domande che le fanno toccare i confini stessi della sua propria ragione di esistere, trovandosi nella necessità di mettere in dubbio l'essenza profonda e la finalità del suo essere autonomo, dall'altro l'appassionata difesa, condotta con toni talora missionari, di una teoria o, per meglio dire, dell'insieme di ipotesi che di una specifica teoria (di fatto non tale, come cercherò di argomentare più avanti) costituiscono il pilastro portante. L'ambiguità sta nel fatto che appunto quest'ultima è spesso utilizzata a sostenere l'idea che una teoria scientifica in qualche modo non possa più esistere.
Il gioco del sapere sul sapere, come lo chiama Hanri Atlan, ha un passato lungo e venerabile. Filosofi e scienziati, stimolati via via dall'apparire di nuove fenomenologie o di nuove teorie, hanno discusso per decenni sul significato vero che si deve attribuire a quelle "leggi della natura" cui i fisici, nel loro linguaggio un po' esoterico e corporativo fanno tanto spesso riferimento. È dibattito che ha suscitato e suscita forti emozioni e spaccature profonde: si chiamano in causa concetti centrali quali quello di realtà, di conoscibilità della realtà, di rappresentazione, descrizione, interpretazione e talora addirittura spiegazione del reale. In questo senso il dibattito è stato infuocato a proposito della meccanica quantistica, con il suo principio di indeterminazione e il modello - che taluni ad esso annettono - di un universo molteplicemente connesso, fatto di più mondi paralleli incomunicabili e indipendenti, di cui uno solo alla volta, in modo casuale, è accessibile alla percezione. Ed è stato acceso anche quando è nata la relatività generale, che per la prima volta costringeva il fisico a porre fra gli oggetti della sua investigazione lo spazio e il tempo, sino ad allora spettatori inerti, palcoscenico muto su cui la natura gioca, sotto forma di eventi, la sua essenza reale "vera". Il dibattito si è poi rivitalizzato quando le leggi della meccanica (con i suoi nuovi paradigmi di caos deterministico e di "stranezza" degli attrattori di equilibrio), della meccanica statistica (ordine e disordine) e della cosmologia moderna ci hanno fatto comprendere come nulla nel modo con cui la teoria fisica descrive la dinamica degli eventi ci consenta di interpretare il fatto che il tempo abbia una direzione privilegiata, una "freccia" che determina in maniera inappellabile dove sia il passato (e perciò lo zero del tempo; l'istante fatidico del Big Bang prima del quale tempo non esiste, n‚ ha significato chiedersi se ci sia) e dove il futuro. Ultimo è venuto il principio antropico. Barrow è, insieme con Frank Tipler, uno dei padri di questa teoria, che, con affettuosa (ma sferzante!) ironia, Tony Leggett nel suo bellissimo libro su "I problemi della Fisica" (Einaudi, 1992) confina in un capitolo intitolato Scheletri nell'armadio. Ma Barrow è appunto anche, in questo suo "Il mondo dentro il mondo" provocatorio sostenitore della tesi che la fisica non può non dover presto confluire, per gli interrogativi e le prospettive che la nuova cosmologia basata sul principio antropico le impone, al di là di se stessa, nella metafisica, nella filosofia.
Non si vuole accorgere, Barrow, che fare fisica è da un lato proprio la capacità di allargare gli interrogativi fino ad includere fra gli oggetti della giustificazione concettuale teorica anche quegli elementi che la tradizione aveva trattato come paradigmi assoluti, ma è dall'altro rigorosa preclusione dal dominio dell'indagine scientifica di qualsiasi elemento che non possa, per sua stessa definizione, assoggettarsi a quelli che degli oggetti della teoria scientifica sono i requisiti essenziali: l'osservabilità, che porta a definirlo in maniera quantificabile, ripetibile, accessibile; la consistenza con i principi generali della scienza; l'intrinseca non contraddittorietà. Quanti non hanno sostenuto la sua stessa tesi, addirittura ben prima che la fisica si proponesse come scienza autonoma vera e propria, nell'ascoltare le osservazioni e i modelli di Galileo, Newton, Einstein, Bohr e Heisenberg, Guth e Feynmann, Wheeler e Hawking! E quanti fra gli stessi scienziati, viceversa, da Laplace a Hawking, non hanno a loro volta proclamato la sopravvenuta morte della filosofia, perché la scienza, la fisica, permette ormai di "spiegare" qualsiasi evento. In una sua conferenza divenuta famosa, divulgata dai media di tutto il mondo a specialisti e non, Steve Hawking, forse il più famoso e grande fra i cosmologi, a metà degli anni ottanta addirittura poneva a se stesso la domanda: "La fisica ha i giorni contati?" e rispondeva a se stesso "sì", perché ormai abbiamo gli ingredienti per spiegare tutto ciò che è importante, abbiamo lo schema strutturale nel quale ingabbiare concettualmente l'universo fisico e la sua evoluzione dinamica; tutto ciò che ci manca è solo dettaglio, di scarsa rilevanza. Meno di quattro anni dopo, proprio in questi giorni, le osservazioni del satellite Cobe hanno mostrato che lo spazio non è isotropo e l'apparente omogeneità attuale non era affatto tale una quindicina di miliardi di anni or sono: una osservazione che contraddice sia la orgogliosa arroganza di Hawking, sia uno degli elementi fondamentali di critica che i sostenitori del principio antropico portano alla teoria tradizionale. E così sono stati regolarmente smemtiti sempre tutti questi profeti: talora da un pensiero filosofico forte, capace di comprendere sia la collocazione dei confini che separano le sue competenze da quelle del pensiero scientifico, senza indulgere in nominalismi vuoti, sia, soprattutto, il fatto che tali confini non sono assoluti e immutabili nel tempo, ma dinamicamente mutano con l'uomo e con il crescere della sua conoscenza; talatra, più spesso forse, da una scienza forte, vitale, capace di crescere attraverso un continuo processo di verifica critica e messa in discussione (la falsificazione kuhniana) dei prorpri principi fondamentali, di paziente analisi della fenomenologia - fatta con mezzi sempre più accurati e precisi, ma, soprattutto attraverso la capacità di ricordare a se stessi i propri obbiettivi "istituzionali".
La scienza non spiega, descrive e fa previsioni (a priori, non a posteriori!) e dalla attendibilità di queste due funzioni trae incoraggiamento ad evolvere un filone concettuale o a troncarlo. Voler spiegare significa porsi in una prospettiva metafisica cui si può aderire solo con un atto di fede - che è strettamente ciò che la scienza non può per sua definizione fare. Un esempio ne è l'elevare a principio o teoria scientifica un postulato che attribuisca al mondo fisico un finalismo intrinseco che abbia l'uomo come obbiettivo, e poiché è proprio questo che fa il principio antropico, vorrei ricordarne gli aspetti più significativi. Le considerazioni fondamentali cui i suoi assertori si richiamano sono due. La prima è l'osservazione che nelle attuali teorie fisiche appaiono molte "costanti": alcune di queste, come la velocità della luce o la costante di Planck, giocano un ruolo fondamentale, altre, invece, quali la massa e la carica di elettrone e protone, sono parametri di cui la teoria si serve per descrivere i fatti sperimentali, ma dovrebbero di fatto - in una teoria più globale e quindi più soddisfacente - essere invece determinate, calcolate, a partire dai principi generali della teoria stessa. Tra questi parametri alcuni giocano un ruolo inquietante: quelli relativi alle proprietà dello spazio-tempo che fa da ambiente alla vita nostra e dell'universo in cui ci muoviamo; il numero delle sue dimensioni (3 dimensioni spaziali, 1 temporale) - che appaiono così indissolubilmente legate alla struttura del nostro modo di percepire e pensare gli eventi - e la sua isotropia, misurata ad esempio dalla radiazione di fondo. Il secondo argomento a sostegno del principio è l'estrema rigidità delle condizioni fisiche necessarie alla comparsa della vita, e ancor più dell'uomo, sulla terra (o comunque nell'universo: così restrittivi e sensibili sono gli equilibri necessari affinché la vita si origini e si sostenga, che non pochi scienziati ritengono non esista in alcun altro pianeta oltre al nostro). L'insieme di questi due ingredienti porta al principio antropico: le costanti fondamentali delle particelle costituenti la materia e la struttura dello spazio-tempo sarebbero quelle che sono perché noi siamo qui a porci domande sulla natura. In altre parole, l'uomo e la conoscibilità della natura da parte dell'uomo costituirebbero una sorta di motivazione teleologica dell'intera evoluzione e addirittura dell'esistenza dell'universo fisico. Un'ipotesi affascinante, naturalmente, ma che nulla ha a che fare con la scienza e le sue motivazioni. L'uso di parametri in una teoria è spesso di natura meramente strumentale in quelle fasi in cui la teoria è in fase di evoluzione, e scompare quando essa raggiunga uno stadio di formulazione più avanzato, allorché la corrispondente grandezza fisica può essere derivata o prevista dalla teoria (si pensi ad esempio alla costante universale di gravitazione della meccanica di Newton, che nella relatività generale di Einstein diviene quantità derivabile dalla distribuzione delle masse attraverso la curvatura da esse indotte dello spazio-tempo). Nella teoria attuale delle particelle elementari, attraverso i progressi sempre più sensibili del programma di unificazione delle interazioni fondamentali, molte delle costanti che fino a pochi anni or sono giocavano un ruolo essenziale sono scomparse, esprimibili ormai in funzione di poche rimaste. D'altra parte le forme in cui noi conosciamo la vita qui, ora, sono un fatto fenomenologico, di cui la fisica deve prender atto come di ogni alito fenomeno osservabile, magari domandandosi - nei limiti entro cui la complessità strutturale del fenomeno le impone di muoversi - se ne riesca a imprigionare i meccanismi in uno schema concettuale. È scienza chiedersi se avremmo o meno avuto qualche forma di vita assimilabile alla nostra se la massa o la carica dell'elettrone fossero state diverse, o se lo spazio avesse avuto più di tre dimensioni? Non è piuttosto compito della scienza, quella pensata e praticata con rigorosa professionalità, conoscere la natura quale questa viene percepita osservandone, con gli strumenti più efficaci disponibili, le proprietà, che non fare della fantascienza o della mitologia - affascinanti, ma che appartengono ad altro ambito intellettuale - o cercare di superare la natura stessa, che tante lezioni di umiltà ci ha dato nei molti anni da che la studiamo, in ingegnosità, chiedendoci che cosa avrebbe fatto se fosse partita da dati iniziali diversi?
La "spiegazione" che il principio antropico vuole darci è di fatto una rigida gabbia che impedirebbe al fisico di fare il suo mestiere di fisico (arrivando, forse, chissà, un giorno a capire gli stessi meccanismi della vita) e al filosofo di comprendere quale realtà, o meglio quale concetto operativo di realtà, il fisico abbia in mente quando formula le sue teorie. Di fatto io credo che l'universo sia una sorta di immensa struttura godeliana, dove si può trovare ben più di quanto le nostre teorie fisiche possano al momento sperare di descrivere, ma dove quanto avviene al di là di quelle regioni dello spazio-tempo accessibili all'osservazione è, per tali teorie, necessariamente indecidibile, addirittura proibito come oggetto di analisi. Forse in un futuro che può essere anche non remoto la scienza conquisterà piccole o grandi porzioni di queste regioni, ampliando i propri strumenti concettuali e osservativi, ma verrebbe meno alle ragioni stesse del suo essere strumento di conoscenza se pretendesse di pronunciarsi - con la stessa autorità che le compete per quelle su cui ha controllo - su questioni che devono invece legittimamente appartenere al campo della filosofia o della fede.
Il libro di Barrow è un libro colto, ricco di informazioni, che presenta un quadro ben articolato e complesso - sia pure partigiano - della realtà con cui oggi la scienza fa i suoi conti. È tuttavia anche una lancia spezzata in favore di una immagine del mondo degli scienziati che non corrisponde alla realtà sociologica ed etica di tale mondo. Gli scienziati che praticano con passione ma con rigore la loro professione non credono di essere i detentori della verità e sono sempre ben coscienti del fatto che potrebbe da un giorno all'altro nascere ad esempio una nuova matematica nel cui ambito le loro formule e le previsioni che ne emergono possano assumere portata e significato del tutto diversi, o nuove misure sperimentali che facciano tremare o addirittura crollare in parte le fondamenta del loro modo di interpretare, descrivere e "conoscere" la natura (ma non si dimentichi il paradigma del principio di corrispondenza che, chiedendo ad ogni teoria di inglobare quelle caratteristiche delle teorie che l'hanno preceduta e generata che sono confermate dall'osservazione, ne garantisce anche il ruolo di patrimonio di conoscenza storica). Ma soprattutto non sono disponibili a imprigionare nei ceppi rigidi di ipotesi o principi a priori, non assoggettabili a verifica sperimentale neppure in linea di principio, i loro schemi intellettuali.

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