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1990
1 gennaio 1990
382 p.
9788877680990

Voce della critica


recensione di Fortini, F., L'Indice 1990, n. 7

"Non creda donna Berta o ser Martino... ". Il solo insegnamento che può trarsi da questo libro è uno, consolante, di libertà. Chi pareva designato ad obbedire a una sorte ricevuta per classe, educazione, doni biologici e biografici, può essere vocato ad altro, mutarsi; d'un tratto o lentamente, non conta. Siccome è proprio delle nature profonde rimanere in una propria parte fedeli ad alcuni tratti dominanti, nel Giovanni Pirelli che ebbi a conoscere è oggi riconoscibile quel che in lui, allora, fra i suoi venti e ventiquattro anni, si manifestava come virtù, come potenzialità indipendentemente dai propri contenuti: diciamo la probità, la capacità di solidarietà e di condivisione, la fiducia nel valore del bene, l'intelligenza attenta .
Giovanni Pirelli è rimasto nella memoria di chi lo ha conosciuto come un uomo di testa e coerenza, di misura, gentilezza e nettezza. Quel che egli ha fatto per la sinistra europea (penso soprattutto agli anni della guerra di indipendenza algerina) non deve essere in alcun modo dimenticato. Ha ragione Tranfaglia, nell'introduzione a questa corrispondenza familiare, a dire che le sue scritture letterarie sono ingiustamente passate, oggi, sotto silenzio; ma una ricostruzione della sua vita può partire solo dalla conoscenza di carte ancora inedite o poco note. Non è importante (Giovanni Pirelli sarebbe d'accordo, spero) la sua individualità ma la sua disseminazione nei destini generali. Più volte pensando alla sua morte precoce ho rafforzato la mia certezza che la sopravvivenza degli scomparsi non passa affatto attraverso la memoria dei viventi, come spesso si crede, ma attraverso la modificazione dei rapporti fra gli uomini che essi hanno introdotto con maggiore o minore forza, in una o in un'altra direzione .
Certo, se allora lo avessimo incontrato - e non pochi altri come lui abbiamo, proprio nei mesi del "crollo", estate 1943, incontrati; nelle tradotte militari, nelle città bombardate, nelle fughe - il giudizio sarebbe stato reciso e laconico e altrettanto fermo l'intento di persuaderlo o, ove ciò non fosse stato possibile, di considerarlo avversario o, al bisogno, nemico. Si danno, nella realtà della storia, le situazioni che restringono, fino a farle quasi scomparire, le possibilità di tolleranza. Ecco qualcosa che i giovani oggi (e dico i migliori fra loro) accettano a fatica .
E fa impressione leggere in queste pagine, a proposito di esecuzioni di civili in Montenegro o di violenze ai danni della popolazione russa, accenni alle dure, inevitabili necessità della guerra. Quando Pirelli si troverà di fronte agli orribili eccessi della guerra algerina, non sarà certo il giovane sottotenente desideroso di sacrificio e di onore, non si farà illusione alcuna sulla "pulizia" delle mani che tuttavia considera fraterne e saprà di poter solo scommettere sulla positività di quella parte che lotta contro l'oppressione. Quanto più, in Albania, in Montenegro e sul Don sarà stato dalla parte degli oppressori.
Mi fanno un poco ridere, e più piangere, quei filosofi per i quali, la storia non avendo più senso, il nostro onore consisterebbe nel fargliene avere sempre meno. Certo, quando ce ne stiamo in un'ansa della storia all'ombra; ma quando ti sparano addosso e tu spari e devi decidere chi, fra "loro" e te, ha "ragione" e sai che quella tua scelta è la conseguenza di uno spezzone di eventi e che un'altro spezzone di eventi conseguirà alla tua scelta, allora il senso non sarà nella storia ma certo in quella tua, o vostra, storia, in quel frammento che, come la limatura di ferro magnetizzata, assume le volute di una armonica decorazione. Contro le filosofie del "disincanto" o, detto più volgarmente, "di chi la sa lunga" ho sempre rivendicato chi "non la sapeva". Senza dubbio, Giovanni Pirelli, non foss'altro che per le informazioni che la situazione familiare, e la sua propria, gli consentivano era in condizione di "sapere" tanto di più di quel che, in quei medesimi mesi, avevo potuto "sapere" io .
Ma, a sua volta, egli ben poco poteva "sapere" se confrontato con altri suoi coetanei, ad esempio Giaime Pintor o Felice Balbo. Eccolo, dopo l'8 settembre 1943, quasi per mero caso spinto fra gli sbandati, lui che leggeva allora gli stessi libri che leggevo io. Non una convinzione politica o una fede religiosa lo aiutavano. Erano i "valori" medesimi, di tradizione familiare, che avevano fatto di lui il sottotenente degli alpini persuaso della santità della guerra regia e fascista, quelli che gli faranno scegliere di non esibire la lettera paterna al presidente della repubblica elvetica quando alla frontiera gli svizzeri gli diranno di non poterlo fare entrare .
Ma perché questo libro, allora? Che né edifica e ammonisce: che non presenta una situazione tipica né sviluppa una conversione. Per capir quel che accadeva davvero nell'animo di Giovanni Pirelli bisogna ricorrere alla prefazione di Tranfaglia o alla biografia cronologica o alla testimonianza di chi lo ha considerato compagno e ha guardato con rispetto all'ombra di imbarazzo per le sue origini che (così me lo rammento) sempre lo accompagnava. Forse, bisognerebbe leggerne il diario. O rileggerne gli scritti letterari. O, e sarebbe certo più conforme alla sua abitudine di spogliarsi di ogni protagonismo, ripensare la strada di coloro che l'hanno fatta insieme a noi. Solo la storia può davvero situarlo dove è il suo luogo ossia insieme ai suoi compagni Fanon e Panzieri .
L'eccellente lavoro di Nicola Tranfaglia ha un limite nei limiti cronologici e nel tipo di rapporto filiale che legava Giovanni Pirelli ai suoi. Per poco che valgano, in questa materia, le testimonianze, posso dire che la corrispondenza di chi, allora, era come me "sotto le armi" rifletteva (come la diaristica, d'altronde, e ogni altra forma di autobiografia) più che una incertezza ideologica una flessibilità psicologica o immaturità e il bisogno di affidarsi a modelli diversi a seconda dei destinatari. Al padre, l'amico, l'amata si indirizzavano carte spesso inconciliabili fra loro. Nel caso di Giovanni Pirelli poi, il mutamento di punto di vista sulla storia e i conflitti in essa avrebbe coinciso con il suo definitivo allontanamento da una parte della cultura e dalla 'pietas' familiare, non dalla sua interezza. La massima prova della sua intelligenza e integrità sta proprio in questo aver rifiutato (così frequente nel figlio di piccola borghesia) la "rivolta dello schiavo", che coincide con la vergogna di avere quella famiglia e non un'altra .
Così questo libro non mi pare tracciare la storia di una crisi se non in quel che non dice e che si può solo supporre o trovare semmai in altre carte, in altre testimonianze. Basta confrontare il suo percorso con quello di un suo coetaneo e partecipe delle medesime esperienze, Nuto Revelli. Quando a p. 248 l'ufficiale di collegamento Pirelli, sul fronte russo, parla del suo "terrore" di incontrare, durante i propri trasferimenti in auto, le colonne degli alpini ("le ben note file di schiene curve sotto gli zaini enormi, di muli stracarichi sotto i teli impermeabili, e gli ufficiali in testa..."), impossibile non pensare che in testa a uno di quei reparti marciava proprio Nuto Revelli .
L'introduzione di Tranfaglia racconta sommariamente (pp. 47-52) i casi di Pirelli fra l'armistizio e la liberazione: esonerato dal prestare servizio militare nelle forze armate di Salò, Giovanni lavora nella milanese azienda paterna dal marzo del 1944 al marzo del 1945 ed è poi con i partigiani negli ultimi due mesi della guerra. Ma chi ha percorso quegli anni sa che in molti di allora il mutamento profondo non fu quello dal patriottismo fascistizzante e militaresco alla "sinistra" democratica e resistenziale ma quello, successivo, di scelta tra le varie forme di quella "sinistra", fra le varie prospettive e sue anime. Per avere avuto allora anch'io, come Giovanni Pirelli, la tessera del partito socialista, resto col rammarico di non avergli mai chiesto, e di non sapere oggi, che cosa lo avesse spinto ad una scelta, a quella data, così poco seguita dai giovani; alla scelta di un partito di vecchi, subordinato a quello dei comunisti e guardato con ironia dagli intellettuali liberal-socialisti del partito d'azione. Ma anche questo riguarda gli storici e non i biografi: com'è che nella formazione, oggi scomparsa, del partito socialista di Nenni si incontrano i nomi di quelli che soprattutto a partire dal 1956 sono stati decisivi per la nascita del marxismo critico e per la svolta del 1968?
"La storia della mia vita, dalla guerra in poi, altro non è che la storia di uno - di origine borghese, di formazione intellettuale - che cerca una risposta alla domanda: da che parte sto?", scrisse Pirelli nel 1962.
Dove sono da notare: la preoccupazione autobiografica ossia di identità, l'inserzione dell'intero periodo della guerra in quella domanda (laddove direi che fino all'armistizio, stando almeno a queste pagine, la domanda non si ponesse) e, soprattutto, il dubbio sulla propria reale collocazione. "Da che parte sto", notate; non "da che parte devo, o dovrei, essere". Uomo del dover essere, Pirelli scopre che la realtà è più forte della autocoscienza. Vuol sapere "da che parte", realmente, egli si trova ad essere; non quale parte ha scelto. Con questa domanda egli è fuori del moralismo della propria giovinezza e dei suoi compagni. Che la risposta non avesse fine (come, ancora oggi, non ha fine per noi) non toglie che fosse capitale: dove siamo sulla mappa di una guerra di classi e di idee? Dove, al di là delle biografie, siamo stati? Quali sono stati, realmente, i nostri compagni? E soprattutto, al di là delle vite, quali saranno?

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Conosci l'autore

Giovanni Pirelli

(Velate, Varese, 1918 - Sampierdarena, Genova, 1973) scrittore italiano. Figlio dell’industriale Alberto Pirelli, scrisse romanzi di forte tensione etico-ideologica (L’altro elemento, 1952; A proposito di una macchina, 1965). Insieme con P. Malvezzi curò le raccolte delle Lettere di condannati a morte della resistenza italiana (1952) e delle Lettere di condannati a morte della resistenza europea (1954).

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