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Michelangelo architetto. Ediz. illustrata - Giulio C. Argan,Bruno Contardi - copertina
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387 p., ill.
9788843533633

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Roberto
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Solo la sensibilità e lo stile di Argan rendono onore alla grandezza di Michelangelo, in uno dei testi migliori del grande storico dell'arte.

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Voce della critica


recensione di Tafuri, M., L'Indice 1991, n. 4

È inevitabile che il lettore del recente "Michelangelo architetto" di Giulio Carlo Argan - con apparato filologico di Bruno Contardi - sia portato a interrogarsi circa i tempi molteplici che in quest'opera sembrano intrecciarsi. La densa prosa dell'autore invita di continuo a dislocare l'analisi, a ramificarla al di là del soggetto stesso della narrazione.
Il più immediato dei motivi che percorrono il volume riguarda il presente. Argan riflette sui limiti dell'azione umana, sullo scacco subito dalle "speranze progettuali", sulla morte. Ma il messaggio è fra i più ermetici dell'opera; l'autore sembra voler mantenere un giustificato riserbo su eventuali allusioni autobiografiche. Non è tale motivo tuttavia, a costituire l'ossatura del libro, che è innervato da una tesi sostanzialmente analoga a quella espressa in molti scritti precedenti di Argan e segnatamente nel saggio del 1964 sulla volta della cappella Sistina.
Il percorso di Michelangelo, per Argan, inizia affrontando un tema già impostato da Giuliano da Sangallo: l'obiettivo è un'eroica sintesi delle arti. Il trasformarsi di quel tentativo di sintesi è parallelo allo svolgersi della "tragedia" della sepoltura di Giulio II, con una svolta dovuta a un evento ancor più tragico; la caduta nel 1530, della repubblica fiorentina. L'unità dialettica di astrazione architettonica e narrazione figurativa, che aveva informato la cappella medicea di San Lorenzo, si trasforma così, nelle opere romane, in una rinnovata autonomia dei singoli linguaggi: fino a quando l'architettura non riuscirà a riassumere in se stessa i messaggi prima affidati alla scultura. Per Argan, una volta crollata la fede nell'Unità di arte e linguaggio, Michelangelo fa della prima "un finalizzato agire morale". Le contrazioni e le condensazioni spaziali dei progetti posteriori al 1534, l'afflato esistenziale che li pervade, la loro problematicità, vengono pertanto letti come espressioni di un fare politicamente orientato. Un "intellettuale integrato" (p. 26) si assume il compito di affermare solennemente il principio dottrinale della Chiesa visibile. Argan non spiega come tale tensione pragmatica possa sposarsi con i motivi erasmiani e con il misticismo del circolo di Viterbo che - nel pensiero dell'artista - sembrano intersecarsi al giovanile neoplatonismo. Egli insiste piuttosto sulla destrutturazione e sulla defunzionalizzazione michelangiolesca del lessico architettonico, spinto sino al limite della pura "decorazione".
Sarebbe ingenuo chiedere ad Argan come tale lettura si concili con la potenza comunicativa da lui attribuita alla cupola di San Pietro o al Campidoglio: l'intima struttura della poetica buonarrotiana - è noto - comprende la contraddizione, il dualismo, la tensione fra estremi difficilmente armonizzabili. Tanto, che anche il transito dalla figurazione pura - il "Giudizio" - all'astrazione pura - la cupola o i progetti ineseguiti per la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini - sfocia, secondo Argan, in un esito tragico. Vicino alla morte, egli scrive, Michelangelo progetta un anticlassico "canto leggero, un madrigale": si tratta di porta Pia (p. 303). Di contro, lo stesso artista riduce l'architettura a un gesto, a un atto di rinuncia, a una dolorosa meditazione interiore. Si tratta delle terme di Diocleziano, trasformate in un "non-finito" oscillante fra l'estrema umiltà e l'infinito orgoglio (p. 309): risultato di quel semplice gesto è la chiesa di Santa Maria degli Angeli, nell'aspetto anteriore ai lavori del Vanvitelli. Nel riprendere tematiche a lui care, Argan sembra voler dare una sistemazione definitiva a riflessioni che hanno accompagnato l'intera sua opera: fra le prime, quelle relative alla dialettica Leonardo-Michelangelo. Egli si vede pertanto costretto a piegare la sua prosa, fatta di aforismi che fissano intuizioni illuminanti, alle esigenze di un lavoro ben diverso dal saggio breve, il più confacente al suo stile di pensiero. Il che evidenzia motivi su cui è interessante soffermarsi.
Ancora più che nei suoi precedenti scritti, Argan lascia trapelare, in questo volume, la sua insofferenza per quanto possa ostacolare la concatenazione narrativa. L'aver affidato a un intelligente discepolo la cura delle schede dice molto al proposito. In un certo senso, il linguaggio critico di Argan tollera a fatica le pause e i rinvii cui il discorso analitico è costretto. Il compito che questo maestro della storiografia artistica si è assunto, specie nei primi decenni del dopoguerra, è stato quello di far colloquiare fra loro tutti i saperi umanistici, alla ricerca di radici e di nessi significanti. L'opera d'arte ha sempre costituito, per Argan, un sintomo: attraverso gli spiragli da essa aperti, le sue sonde critiche hanno cercato di raggiungere gli strati profondi dell'agire umano. Diversamente da André Chastel, ma con obiettivi simili, egli ha insegnato a intere generazioni - compresa quella di chi scrive - a non considerare il fenomeno artistico come isolato. Con effetti disastrosi negli epigoni. Argan non è imitabile, anche perché la sua opera, tesa a intervenire, a guidare, a modificare il presente attraverso il passato, è tenacemente saldata alla biografia di uno storico che ha vissuto intensamente gli anni del consenso al fascismo, della ricostruzione, della faticosa marcia verso la modernizzazione del paese.
Non si dice nulla di nuovo riconoscendo come fonte di tale storia 'engagée', il "Gusto dei primitivi" di Lionello Venturi: un testo in cui Giacomo Debenedetti riconobbe, nel 1927, una volontà "di azione". E il metodo venturiano - così ardito nel confrontare Giotto con Cézanne - era stato anticipato, con fini analoghi, da Max Dvorak, nella famosa conferenza su El Greco. Il tentativo di Venturi era stato quello di innestare nel ragionamento storico un appello all'Europa, il cui significato è inequivocabile alla luce degli eventi italiani intorno al 1926. È all'interno di una simile concezione del lavoro storiografico che si pongono gli scritti del giovane Argan. In gran parte, questo "Michelangelo" è in continuità con la via maieutica scelta dal suo autore nei difficili decenni a cavallo del secondo conflitto mondiale. Né esso tace delle rinunce cui l'urgere dell'intervento ha obbligato quella scelta.
Non è purtroppo abituale leggere testi recenti di storia dell'arte come specchi delle situazioni che ne hanno condizionato la nascita. Eppure, dovremmo saper scorgere negli "Architectural Principles" di Wittkower un'affermazione di fiducia nella ragione occidentale: una ricerca di fondamento - da parte di uno sradicato 'malgré soi' - per l'architettura del dopoguerra alla ricerca di nuova legittimazione. Analogamente, è possibile leggere nel "Biagio Rossetti" di Bruno Zevi una testimonianza delle speranze dell'urbanistica italiana negli anni precedenti il primo centrosinistra. La monografia di Argan si aggancia ai saggi scritti dallo stesso autore negli anni cinquanta su Brunelleschi - aurora di un laico umanesimo - e su Borromini, campione di una "rivoluzione fallita". Questo Michelangelo esistenziale, infatti, ansioso di scorgere tracce del divino in un mondo lacerato, sembra parlare delle disillusioni, delle incertezze, dei bisogni attuali di un'intera generazione di intellettuali. Dal rifiuto di parlare con cui si chiude la vita artistica del Buonarroti, nella narrazione di Argan, traspare una voglia di protesta contro nemici imprecisati, un'esigenza di prendere posizione anche se le antiche trincee risultano inagibili.
Eppure, un'analisi che conceda troppo al punto di vista ideologico non è adeguata alla piena comprensione del volume. In questa sede, è impossibile entrare nel dettaglio dei singoli problemi; ci dovremo limitare a osservazioni generali. La prima delle quali riguarda quella che si potrebbe chiamare una sopravalutazione costante della cultura filosofica e della coscienza politica del Buonarroti: Argan sembra entrare in polemica, ma senza prendere di petto l'argomento, con l'articolato saggio di Giorgio Spini sull'ambiguità politica di Michelangelo. Tanto, che in alcuni passi del libro l'artista sembra impegnato a tradurre concetti astratti in forme, attraverso traslazioni difficilmente dimostrabili. È un Buonarroti lucidamente cosciente della portata strategica dell'operazione intrapresa, ad esempio, che dà forma - secondo Argan - alla piazza del Campidoglio: ma proprio le pagine dedicate a tale soggetto evidenziano la scissione tra critica e filologia inizialmente postulata. Giustamente, infatti, nella sua scheda relativa al complesso, Bruno Contardi mette cautamente in dubbio - su basi documentarie - le responsabilità solitamente attribuite all'artista nella configurazione del nuovo assetto capitolino. Ed è molto probabile che un'analisi ancor più dettagliata dei documenti, dei grafici superstiti, dell'opera stessa, possa contribuire a smontare un mito creato dalla tradizione storiografica su discutibili fondamenta. Argan non segue la traccia individuata da Contardi, dando l'impressione di essersi lasciato trascinare dalla propria costruzione critica e letteraria. Come in altri passi, il prevalere dell'induzione sull'analisi rischia di rendere troppo facilmente falsificabili le tesi esposte.
L'autore, in definitiva, sembra condizionato da cortocircuiti interpretativi. Che traspaiono anche dalle pagine da lui dedicate alla cappella medicea. "L'architettura - egli scrive (p. 91) - era qualcosa che avveniva e diveniva (cioè si faceva spazio e tempo) e proprio perciò era costituzionalmente non-finita... non-finita era la rastremazione prospettica della grande finestra nelle arcate ...non-finito era non solo il modellato delle statue allegoriche, ma il loro darsi come immagini appena apparse e già sul punto di sparire". Se l'applicazione della categoria del non-finito all'architettura della Sacrestia nuova è almeno opinabile, è l'incalzante ritmo della narrazione - frutto di generosa ansia interpretativa - a rendere indefinite le intuizioni dell'autore. Quel finestrone, in realtà, salda i due registri spaziali acutamente riconosciuti da Argan nella cappella, mentre non può essere sottaciuta la significativa quantità di citazioni nascoste da Michelangelo nell'opera: dai capitelli invertiti, su cui aveva riflettuto il Cronaca, agli ovuli figurati, anch'essi tratti dall'antico, alla raggiera che si diparte dall'acuto della cupola, memore del tempio di Portunno a Porto, secondo il rilievo di Giuliano da Sangallo.
A partire da tale citazionismo, indubbiamente particolare, l'intero rapporto di Michelangelo con le sue fonti potrebbe essere riesaminato. Argan, ad esempio, non utilizza le osservazioni a suo tempo fatte da Metternich sull'analogia che lega la "cappella Julia" bramantesca all'esterno delle absidi petriane del Buonarroti, n‚ la sua analisi del progetto finale per San Giovanni dei Fiorentini comprende riflessioni sull'invenzione peruzzesca del 1518-19 per la medesima chiesa romana (Uffizi, 510 Ar.). Analogamente, c'è qualcosa di tradizionale nella sua considerazione del debito dell'artista nei confronti dell'architettura antica. È infatti significativo che Michelangelo adotti il modello del Colosseo nel "tradire" il progetto di Antonio da Sangallo il Giovane per il cortile di palazzo Farnese, o che - ma tale lettura non collima con quella di Argan - si preoccupi di restituire, con reverenza palese, la solenne cadenza dell'aula centrale delle terme di Diocleziano, riducendo al minimo l'intervento. È tutta da scandagliare l'ipotesi di un Michelangelo che nell'antico veda un analogo dell''idea': soltanto attraverso la deformazione, attraverso un faticoso lavorio, quest'ultima si fa mondana; ma la sua pienezza è inattingibile. Proseguendo per tale via, i passi in cui Argan evoca il pensiero di Erasmo potrebbero essere ulteriormente sostanziati. Comunque, va considerata appena iniziata un'indagine capace di radicare il Buonarroti nello sperimentalismo delle correnti più spregiudicate del XVI secolo: forse, un simile correttivo all'immagine consueta dell'artista potrebbe dischiudere imprevisti orizzonti storiografici.
Tali considerazioni sono soltanto alcune fra le molte che il testo suggerisce. Né vorremmo essere fraintesi: esse implicano un profondo rispetto per un'opera che il suo autore considera forse - ma l'augurio è che non sia tale - per lui conclusiva. L'invito a una sua lettura "prospettica" è conseguente a questo augurio.
Come s'è detto in precedenza, le schede filologiche di Bruno Contardi formano una sorta di libro indipendente. E va riconosciuto che lo studioso ha offerto un lavoro altamente professionale. Tutte le opere architettoniche di Michelangelo sono state da lui scandagliate attraverso uno spoglio bibliografico di ammirevole completezza. Fra le poche mancanze di rilievo, è da lamentare quella relativa al saggio di Charles Robertson sull'architettura dipinta della volta sistina ("Journal of the Warburg and Courtauld Institutes", XLIX, 1986, pp. 91 sgg.): con un'ipotesi stimolante, anche se da vagliare, Robertson ha proposto l'ipotesi di una sorta di collaborazione fra Bramante e il Buonarroti; e nell'articolare la proposta, egli ha fornito materiali da non sottovalutare per una critica di molte idee consolidate. Si tratta comunque di un neo secondario, che non inficia la validità della fatica compiuta da Contardi: il suo catalogo è destinato a divenire un utile strumento di lavoro. In un certo senso, l'onestà intellettuale dell'autore traspare anche da quanto potrebbe essere riconosciuto come un limite del suo contributo. Contardi non si impegna nella lettura analitica di grafici, rilievi e realizzazioni, n‚ apporta novità documentarie: molti problemi relativi all'attività architettonica di Michelangelo rimangono tali. Pertanto, il libro non sostituisce quello - ancora in gran parte attuale - di James S. Ackerman, tradotto da Einaudi a suo tempo e recentemente riproposto in inglese, con accurati aggiornamenti. Tuttavia, la scelta di Contardi contiene risvolti apprezzabili, dati gli interessi non specialistici che motivano la sua ricerca. Né egli rinuncia a ipotesi personali, come nei casi del concorso leonino per la facciata di San Lorenzo a Firenze, o di porta Pia. Tuttavia, il volume presenta un difetto editoriale da sottolineare. Nel testo di Argan sono state sparse illustrazioni relative a disegni michelangioleschi ad esso non essenziali, e invece considerati ordinatamente nelle schede. Il che obbliga lo studioso a faticose ricerche fra le pagine, per seguire il filo logico delle analisi di Contardi: un appunto, questo, di cui è sperabile si possa tener conto in futuro, nel fissare i criteri redazionali di opere la cui consultazione si ritenga essenziale.

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Giulio C. Argan

1909, Torino

Lo storico e critico d'arte di fama internazionale Giulio Carlo Argàn nacque a Torino nel 1909. Docente di storia dell'arte moderna all'Università di Roma, fu eletto a Roma come indipendente nelle liste del Partito comunista, e divenne poi sindaco della città dal 1976 al 1979. Nel 1969 ha fondato e diretto la rivista Storia dell'arte. Dal 1979 al 1983 è stato presidente del Comité international d'histoire de l'art (CIHA), e dal 1983 al 1992, anno della morte avvenuta a Roma, è stato senatore della Repubblica.Tra le sue opere si ricordano: Borromini (1951); Walter Gropius e la Bauhaus (1951); L'architettura barocca in Italia (1957); Progetto e destino (1965); Storia dell'arte italiana (1968); Studi e note:...

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