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La mia vita nell'arte - Konstantin S. Stanislavskij - copertina
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La mia vita nell'arte - Konstantin S. Stanislavskij - copertina

Descrizione


"La mia vita nell'arte" non è solo l'autobiografia di uno dei più grandi uomini di teatro del Novecento, è anche uno straordinario libro sulla professione dell'attore, sui suoi segreti, le sue difficoltà, le sue regole, le sue buone e cattive abitudini. Un'indispensabile premessa agli altri volumi di Stanislavskij, "Il lavoro dell'attore su se stesso" e "Il lavoro dell'attore sul personaggio", scritti più tardi e concentrati sull'educazione e sull'allenamento dell'attore. Questa edizione presenta una nuova traduzione, un ricco e raro apparato iconografico che documenta l'intera carriera dell'autore, un'appendice con brani inediti relativi ai più importanti spettacoli presi in esame.
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Dettagli

2009
5 maggio 2009
445 p., ill. , Rilegato
9788895065298

Voce della critica

Caso fortunato d'un libro per molti famoso, sapientemente riedito (nella collana "Oggi, del teatro", diretta da Roberto Bacci e Cala Pollastrelli, Fondazione Pontedera Teatro), che regala non solo un'appendice con pagine scelte fra quelle eliminate dall'autore al momento dalla stampa, ma veri e propri effetti di straniamento. Sottintende un lettore giovane, al quale si presenta come un dono, in un formato quasi di lusso, e un prezzo relativamente basso. È il primo libro del fondatore (assieme a Nemirovič-Dančenko) del Teatro d'arte di Mosca, nel 1898: capostipite dell'arte teatrale moderna. Al posto delle usuali note biografiche, c'è un generoso "Album Stanislavskij", che ricapitola in maniera brillante, con testi e immagini, la cronaca dell'autore, dalla nascita (1863), alla tournée americana del 1922-24: l'occasione in cui nacque il libro. Quando l'autore morirà, nel '38, sarà già a pieno titolo anche uno scrittore.
Il sottinteso di fondo è che Stanislavskij merita d'esser scoperto.
O riscoperto: agli specialisti l'edizione Malcovati instilla la sacrosanta tentazione a leggere questo ben noto libro come se fosse ignoto. L'abbiamo letto più volte, noi vecchi. Sappiamo già dove va a parare: allo Stanislavskij che giganteggia nelle storie del teatro e nella scienza dell'attore. Poi ci rendiamo conto che porta con sé un carico di cose future. Parla molto di infanzia e adolescenza, di gente ricca, nel passaggio fra Otto e Novecento, sul crinale fra due epoche. Parla di giardini incantati, a Mosca o a Torino, di scherzi, di grandi case invase dal teatro nei lunghi periodi in cui l'Irrealtà richiede una dedizione e un impegno pari a quello della vita "reale". Al lavoro d'azienda e d'ufficio l'autore accenna soltanto, perché qui il suo tema non è il fitto intreccio della vita, ma solo "la vita nell'Arte". Questa selezione drastica rinnega l'autobiografia e delinea un solo sentiero, quello dell'invenzione di patrie ulteriori e fuggitive. Il che forse ci riguarda, visto che anche noi ci sentiamo in bilico fra due epoche e fra i due micidiali rischi del rimpianto e dello spavento. Stanislavskij li combatte inoltrandosi nella strettoia. Si tiene ben fermo al senso della Storia in cui vive. Ma non vi si abbarbica. Perché il teatro? Sottintende: perché senza patrie parallele non sapremmo stare. E perché è meglio cercarle nell'Aldiquà.
Se quella da cui l'autore parla è un'epoca da noi distantissima, lo è solo per il colore locale. Saltando dall'uno all'altro episodio, emerge chiaramente marcata la soglia che permetteva di passare dal Reale all'Irreale. I ruoli e le cerimonie della vita sociale, produttiva, familiare erano nettamente distinti dai ruoli e dalle cerimonie dello Spettacolo. La consistenza della soglia dava energia e senso all'azione di trapassarla per inoltrarsi nell'Irreale, il quale rafforza al senso della Realtà. E viceversa. Non s'era ancora affievolita e persa, fra le due zone, la percezione della demarcazione. E la nozione di "Spettacolo" non era ancora del tutto scivolata nell'odierna vergogna, nel deprimente schermo di immagini dove entrano gloriosamente in confusione sogni notizie distrazioni depistaggi e attualità, il politico fare e il massmediatico fare finta.
Appena cinquant'anni fa tutto questo era assai meno impellente. Quando Gerardo Guerrieri fece pubblicare per la prima volta La mia vita nell'arte in Italia (Einaudi, 1963), traducendo l'edizione russa (quella in cui Stanislvskij si riconosceva, non l'americana), le scene europee erano scosse dalla ricerca del "nuovo teatro", agitate e rinnovate dalla perdita della propria centralità nell'orizzonte dello Spettacolo, fra capitalismo e lotta di classe, fra teatro borghese e teatro popolare. C'erano ancora i critici, c'era ancora un ambiente in cui Stanislavskij conservava un sapore di novità, suscitava ondate di pro e di contro. Veniva spesso contrapposto a Brecht, nel dibattito che qui da noi si raccoglieva sotto l'ombrello di due magiche parole: Impegno e Regia. Era così vicino, così potente e così strano che in pratica le vie d'accesso più rapide per avvicinarlo erano gli aneddoti: la maniacale ricerca del realismo oggettistico, la lunghezza inusitata delle prove, il rigore etico, l'incontentabilità. Di qui prendeva il via Angelo Maria Ripellino, nel capitolo stanislavskiano di quel suo capolavoro teatrale intitolato Il trucco e l'anima (1965). Dall'aneddotica e dalla leggenda era partita, due anni prima, anche la prefazione di Guerrieri, mentre sul retro della sovraccoperta bianca e rossa einaudiana, La mia vita nell'arte veniva lanciata con tre righe stampate grosse: "Il primo dei grandi registi moderni ci dà l'avvincente romanzo di una vita e il manifesto di un nuovo teatro". Oggi, neppure una parola di questo "lancio" servirebbe a lanciare qualcosa.
Nella sua prefazione, Fausto Malcovati tematizza lo spaesamento. Assume il tono di uno che quasi si schermisce dalle molte cose che sa. Poi guarda fuori dalla sua finestra, divertito e un po' spaventato dalla distanza fra il mondo che ama vedere e quello che ama rievocare. Si rivolge così all'immaginato lettor giovane sempre in prima persona ma sempre in maschera, ora con cenni guardinghi, ora con enfasi scherzosa. Tant'è che intitola "notarella dolorosissima" la nota che in altre mani sarebbe stata un'impettita esibizione di teatrologica filologia sui percome e i perché della difficoltà a tradurre il lessico teatrale russo in quello meno articolato nostrano.
La via d'accesso scelta da Malcovati per introdurci al libro non è lo Stanislavskij della leggenda e dell'aneddoto, ma la geografia degli stretti innavigabili. Nel punto di partenza mostra un artista in preda a "domande senza risposte", cosciente della fine di un'epoca nella nuova società nata dalla Rivoluzione, e soprattutto "pacatamente disperato" per i mutamenti interni al suo paese teatrale nei mesi della tournée americana, fra il 1924 e il '26. Il vitalissimo Teatro d'arte di Mosca è ritenuto il migliore del mondo, riscuote successi senza pari nei più diversi paesi. Ma è morto. Da New York, Stanislavskij scrive a Nemirovič-Dančenko (in genere lo si ricorda ingiustamente fra parentesi) una lettera segreta: assieme hanno fondato il Teatro d'arte, assieme hanno stravinto battaglie perdute in partenza. A lungo hanno intelligentemente litigato. Ora debbono entrambi sapere che – fra i trionfi – dal loro paese teatrale la vita se n'è andata. Vivono benissimo gli spettacoli, ma la ricerca sul processo creativo dell'attore, con le sue continue metamorfosi, è dispersa e inaridita.
Stanislavskij, come tutti i fondatori di enclave teatrali del Novecento, sembrava un sognatore ed era principalmente un uomo d'azione. Programmò la ritirata vincente: continuò ad adempiere al dovere di recitare, ma trasferì la ricerca in territori protetti: innanzi tutto la scrittura. Più tardi, il lavoro faccia a faccia per prove senza limiti, di cui rimane una vivida traccia nel libro di Toporkov sugli "ultimi anni", curato per Ubulibri da Malcovati nel 1991.
Alcuni anni fa, Franco Ruffini scriveva (Stanislavskij, Laterza, 2003) che quel gran maestro di teatro andrebbe considerato come un maestro tout-court, "senza limitazioni di teatro". Senza teatro, che Stanislavskij è? E che cosa vorrà mai dire "limitazioni di teatro"? La risposta non ci è chiara. Ma è chiarissima la domanda. Perché Stanislavskij, negli anni successivi alla Mia vita nell'arte, si inoltrò sperimentalmente e gioiosamente verso spazi teatrali sempre più protetti e interni, dettagliò i mondi inesplorati e infinitesimali della fisiologia dell'essere umano nel processo creativo. Un itinerario della mente nell'Aldiquà, fra i segreti della fisiologia, o biologia, o vita che dir si voglia, insaporito da tratti neri e pause di disperazione, in luoghi inaccessibili alla censura, agli amministratori, persino al controllo degli spettatori indifferenziati che chiamiamo "il pubblico".
Dal punto a cui lui era giunto principiò a navigare Grotowski, morto nell'ultimo anno del Novecento, età d'oro del teatro. Come lo stretto mitologico sentiero di mare fra Scilla e Cariddi, anche questo in teoria non è teatralmente navigabile. Là è segnato un passaggio, ma anche una sicura rovina: teatro senza più spettacolo? Spettacolo senza teatro? Il sentiero innavigabile sulla carta è forse anch'esso una patria fuggitiva? La mia vita nell'arte ci conduce oggi a quel punto, fermi alla nuova soglia. A meno che qualcuno non si cacci dentro l'impraticabile strettoia, non vi navighi a vista, senza principi e molta tecnica. E magari ne esca fuori. Non si sa come.
Ferdinando Taviani

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