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Di singolare compattezza compositiva, Mettere giudizio raccoglie saggi e recensioni che Bruno Pischedda, romanziere e insegnante di letteratura italiana contemporanea all'Università di Milano, ha selezionato al culmine di un lavoro ventennale. Opere, autori e questioni affrontate risultano a prima vista eterogenee, pur collocandosi tutte nell'arco novecentesco della civiltà di massa. Si va da Vittorini a Benni, da Lalla Romano a Baricco, dagli sviluppi del giallo postbellico alla pienezza del postmoderno. L'intervento di taglio monografico centrato su un'opera singola, sia narrativa sia critica o documentaria, convive con l'incursione panoramica condotta nell'ambito di un genere, con la sintesi teorica e con la proposta di scansione storiografica. D'altra parte, per riprendere la sagace partizione dell'indice, i "giudizi sommari" sono raggruppati accanto ai "giudizi di merito", ai "giudizi d'intrattenimento" e ai "giudizi a procedere". Cioè a dire: il volume allinea tipologie diverse di scrittura critica tra le quali si dispiegano richiami trasversali, anticipazioni e riprese, successive messe a fuoco: recensioni condotte all'insegna di una sempre chiaroscurata risolutezza, saggi più distesamente circostanziati, disamine rigorose di opere mirate allo svago letterario, profili sistematici di lucida pregnanza concettuale.
La varietà dei testi presi in esame e la peculiarità dei percorsi intertestuali tracciati consentono invero a Pischedda di delineare via via le direttrici di svolgimento di un'intera compagine culturale, nella sua più ampia latitudine d'espansione e nei suoi livelli di stratificazione interna. A garantire l'univocità organica di Mettere giudizio è certo l'attitudine a leggere un'opera non già come luogo di esperienza estetica esclusiva, piuttosto come snodo di relazioni tra molteplici soggetti, tra le esigenze antagonistiche e complementari di scrittori, lettori, critici, editori: e ancor più la capacità di illuminare la linea di saldatura tra assetti formali e implicazioni extraletterarie a vasto raggio. Tuttavia i meriti del libro non risiedono soltanto in una smagliante coerenza metodologica, che offre criteri di orientamento utili ad attraversare il sistema letterario attuale senza smarrirsi e insieme senza mortificarne la complessità problematica: risiedono soprattutto in una chiave interpretativa forte, sottilmente polemica, atta a intendere il contegno degli intellettuali novecenteschi di formazione umanistica nei riguardi della modernità di massa.
In sintonia con il funzionalismo letterario di Vittorio Spinazzola, Pischedda implicitamente rimprovera agli scrittori e agli interpreti più significativi del novecento italiano di aver mancato un'occasione storica: di non aver saputo concorrere in termini propositivi all'elaborazione di consuetudini civili adeguate a un paese industriale avanzato, anzi di aver deprecato il processo di allargamento dell'orizzonte culturale, delegandone in buona sostanza la gestione alle forze spontanee del mercato e dell'imprenditoria mediatica. Ciascuno a suo modo, con diverse misure di responsabilità, i Pasolini i Volponi gli Sciascia hanno assunto posizioni di arroccamento contristato o compianto regressivo, anziché cogliere e valorizzare le potenzialità di emancipazione democratica insite nelle fasi più incalzanti dello sviluppo sociale e produttivo. Tale è l'humus irrazionalista che alimenta la voga apocalittica illustrata da Pischedda nel suo libro precedente, La grande sera del mondo (Aragno, 2004), dedicato ai romanzi del secondo Novecento italiano che nella maniera più esemplare e visionaria hanno trasfigurato il senso del mutamento in termini distruttivi.
Della modernità di massa, insomma, gli intellettuali italiani non hanno saputo discernere, al di là dei rischi di omologazione e appiattimento mercantilistico, gli aspetti inclusivi, le opportunità di parificazione, le spinte alla diversificazione pluralistica, di segno democratico progressivo. Di fronte alle incertezze del tempo presente, ha prevalso la tendenza alla semplificazione, quand'anche orientata nel senso dell'apertura cosmopolita, piuttosto che l'attenzione alle diversità: lo spirito di casta piuttosto che l'impegno di mediazione tra i diversi momenti e componenti del sistema culturale. Rispetto ai problemi posti dalla modernità letteraria, ciò che Pischedda lamenta è la carenza di un metodo onestamente empirico e razionale, laico, in virtù del quale il sapere umanistico tradizionale possa essere aggiornato sulla base delle istanze tecnico-scientifiche avanzate dai nuovi circuiti di produzione e consumo. In Mettere giudizio non mancano peraltro valutazioni diversamente orientate: Pischedda si guarda bene dal gusto facile della tabula rasa. Non tutti gli autori vagliati propendono al ripiegamento apocalittico e cruccioso, come variegate sono d'altronde le stesse retoriche dell'apocalisse. Tra i giudizi francamente positivi, calibrati in ogni caso con oculatezza di argomenti e motivazioni, alcuni sono pronunciati a beneficio di scrittori e opere che senz'altro mette conto riproporre all'attenzione pubblica, per un più equo apprezzamento: dai romanzidi Emilio Tadini, ai primi lavori di Aldo Busi, alla narrativa rosa controcorrente di Brunella Gasperini. A indicare che le occasioni della modernità non sono affatto esaurite, e che un'altra modernità è dopotutto ancora possibile. Giuliano Cenati
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