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recensione di Esposito, E., L'Indice 1988, n. 9
È diviso in quattro parti il libro con cui Michele Ranchetti (nato nel 1925) solo oggi esordisce come poeta. Solo oggi perché, nonostante qualche testo pubblicato in rivista, e un volumetto a due voci uscito nel 1981 presso Lampugnani Nigri, gli uni e l'altro hanno fatto troppo rapido passaggio nel mondo delle lettere (l'editore stesso con loro, come una meteora) per riuscire ad ancorarvisi e anche semplicemente a farsi davvero conoscere. Ranchetti, noto storico della Chiesa, non deve del resto puntare più che tanto su questa sua riflessione creativa, se definisce semplicemente i suoi testi "momenti di un giro a vuoto mentale"; eppure il sospetto dell''understatement' viene sollecitato se facciamo anche solo attenzione al fatto che questo giro a vuoto dura dal 1938 ("Le poesie qui pubblicate sono state scritte dal 1938 al 1986") e che l'autore ne parla non solo in termini di "narcisismo " ma di "narcisismo testamentario ". E forse ben altrimenti importante questo lavoro di cui si sottolinea fin dal titolo la dimensione ludica e razionale, e troppo è segnato da una continua e dolorosa riflessione ("Più oltre il mio tempo / era il tempo di vivere") e dalla lotta con se stesso per non suggerirne piuttosto una lettura in termini di esplicita confessione, di impietosa autoanalisi cui il pudore ha solo imposto di sopprimere (dirò schematizzando) nomi e circostanze.
Quattro parti, dicevo infatti; ma nessuna di esse può essere facilmente attribuita a quei "tempi diversi" di cui parla l'autore, n‚ qualche titolo ci soccorre a intendere tale divisione; così le singole poesie, semplicemente numerate e raggruppate secondo "indicazioni tematiche, volte ad orientarne la lettura". Tocchiamo forse in questo senso una più interna ragione del (fino ad ora) mancato ascolto di Ranchetti: l'astrattezza del suo discorso, il suo svolgersi in una rarefatta atmosfera in cui viene meno ogni singolarità dell'esperienza (e la conseguente possibilità di un facile confronto e tutto si svolge nei termini dell'eterno dilemma umano, i cui punti di riferimento sono la vita, la morte, il tempo, la colpa, la fede, la fine (continuamente ricorrenti, infatti, questi termini). L'angoscia, anche, di tutto questo; ma rivissuta quasi come rovello mentale, come sforzo razionalizzante di una materia che troppo brucia perché la si possa concretamente toccare, perché concretamente se ne possa parlare. Poesia interrogativa (autointerrogativa) e più spesso constatativa, che tende in ogni istante alla generalizzazione, e quindi alla sentenza, e la insegue (per rivelarne la vanità) attraverso l 'antitesi e il paradosso. Poesia metafisica - se vogliamo ricorrere a più consolidate etichette - che ha il pregio di invitarci ad una meditazione non scontata e a un approfondimento (della stessa lettura) continuo.
Poesia che forse ha il limite di credere troppo poco a se stessa, alle possibilità della parola di trascendere la razionalità delle sue coordinate esterne (la sua "convenzionalità") e di suggerire ciò che le convenzioni non regolano, ma che sa comunque toccare punti di notevole intensità, sospesa come appare "sul ciglio / di una violenza attonita di cui / le parole muovevano le ombre".
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