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Memoria e storia: il caso della deportazione - Anna Rossi Doria - copertina
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Memoria e storia: il caso della deportazione - Anna Rossi Doria - copertina

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1998
1 febbraio 1998
66 p.
9788872846377

Voce della critica


recensioni di Bravo, A. L'Indice del 1999, n. 01

Crocevia di questi anni e terreno di pesanti forzature politiche, il rapporto storia/memoria offre il suo lato migliore quando viene misurato su un oggetto e su un contesto sociale o territoriale. È quanto fa questo breve, importante libro, che mette a fuoco il binomio deportazione / realtà italiana, non senza introdurre il lettore alle linee generali di un confronto che ha impegnato autori come Todorov, Nora, Charles Maier, Hobsbawm. Una scelta opportuna, perché quel dibattito deve e dà molto al tema deportazione e genocidio, e un legame simile presiede allo spartiacque tracciato nel testo: da un lato le politiche dell'identità, in cui la memoria è strumento per la passione, e l'invenzione, delle origini; dall'altro la memoria come fondamento di un'etica civile, in cui ciascuno è chiamato in causa non attraverso il dubbio concetto di colpa collettiva, ma in nome dell'eredità che il passato impone anche agli incolpevoli. È qualcosa di più della distinzione fra vero e falso. È responsabilità versus identità, autocoscienza versus autoinganno.

In questa prospettiva, il destino della deportazione - degli ebrei, dei politici, degli internati milita-
ri - viene analizzato come rimosso e punto critico dell'immagine nazionale. Ne esce un quadro che deve far riflettere.

Di per sé difficile, la memoria dei lager ha vissuto decenni di solitudine. Non di immobilità: è cambiato il tasso di visibilità delle sue componenti, fino agli anni settanta più alto per quella politica, poi per quella ebraica, mentre via via si faceva spazio l'internamento militare; si sono moltiplicate le voci, è cresciuta una nuova area di ascolto. Eppure a tutt'oggi il 16 ottobre 1947, giorno della grande retata al ghetto di Roma, non è entrato a pieno titolo nel cuore della città, come è avvenuto invece per le Fosse Ardeatine. Solitudine è precisamente questa assenza di un orizzonte simbolico in cui la memoria possa collocarsi.

Certo hanno pesato l'incredulità e la distrazione con cui nel dopoguerra sono accolti i deportati.Ma qui l'obiettivo non è mettere sotto accusa un'intera e perciò indistinta società; è discutere, con serenità e severità sorrette da una ampia disamina bibliografica, di alcune sue articolazioni decisive per lo svolgersi del rapporto storia/memoria: istituzionali statali, intellettualità, comunità degli storici. Diversamente che in altri paesi, ad esempio in Francia, lo Stato italiano non si preoccupa né di avviare un censimento dei vivi e dei morti, né di raccogliere documentazione, né di dare sostegno adeguato ai sopravvissuti; le loro prime associazioni sono anzi viste con la diffidenza ottusa riservata all'universo dei reduci. Per intellettuali e grandi editori, fanno fede le tante opere respinte o lasciate cadere nel silenzio.

Per gli storici, un bilancio ancora più opaco. Il mancato incontro con la memoria viene argomen-
tato con franchezza, dando no-
me e cognome ai pochi studio-
si sensibili e smontando alcuni alibi attraenti come l'indicibilità dell'esperienza concentrazionaria o la scarsa integrazione fra storia e scienze sociali. Se una categoria nota per la prepotente vocazione pedagogica si ferma di fronte alla deportazione, le ragioni sono altre. Tesa all'obiettivo del riscatto nazionale, la contemporaneistica italiana si dedica con intensità alla Resistenza, ma ne coglie e valorizza esclusivamente l'aspetto armato, secondo un'ideologia che, in perfetto accordo con l'immaginario popolare, identifica presa delle armi e combattività, condizione inerme e passività. La gran parte dei deportati non ha preso parte a scontri militari: ecco perché nell'Italia rinata alla democrazia la deportazione ha un posto marginale.Manca dei "requisiti"; è esterna agli schieramenti politici. Per di più, in quanto prodotto e testimone dei crimini italiani nei tre anni di guerra e nel genocidio, minaccia di incrinare l'immagine nazionale in costruzione, quella di un paese che si vorrebbe a grande maggioranza antifascista e immune dall'antisemitismo, di un popolo innocente anzi vittima, e però capace di lottare armi in pugno. È lo stereotipo del buon italiano in veste storiografica, arricchito per l'occasione di virtù militari e civiche. Fra identità e responsabilità, nel mondo degli storici si è a lungo preferito la prima, come se nominare i colpevoli ed espellerli simbolicamente dal corpo nazionale bastasse a fare i conti con la propria storia, ed esimesse dallo sforzo di comprendere la deportazione, di ripensare e ripensarsi alla luce dei suoi significati. Dovere inevaso, è il giudizio dell'autrice.

A questo punto, si apprezzano ancora di più le molte iniziative di studio e divulgazione promosse dagli ex deportati, con un lavoro di supplenza tenace e culturalmente impeccabile che tuttavia non poteva bastare da solo. Una memoria più dolorosa e una storia più sterile sono lo sbocco di questa separatezza.

Ma va detto anche che in questi anni, sebbene la deportazione sia tutt'altro che al centro del panorama storiografico, la distanza si è ridotta, in controtendenza rispetto alla decrepita, comoda e oggi rinverdita divisione dei ruoli che assegna alla memoria la rappresentanza di particolarismi insindacabili, alla storia la sintesi "oggettiva" e "generale"; e che svilisce l'una e l'altra. Carica di soggettività e di tensione alla ricerca del vero, la memoria della deportazione - scrive Anna Rossi-Doria - indica una strada capace di far interagire i due livelli. Chiede in compenso che non si sfugga al confronto con i rami più terribili della genealogia umana, e che con lo stesso spirito si guardi al presente.

(A.B.)

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