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Medicina, magia, religione, valori. Vol. 2: Dall'Antropologia all'Etnopsichiatria. - copertina
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1998
1 gennaio 1998
468 p.
9788820727529

Voce della critica


recensioni di De Micco, V. L'Indice del 1999, n. 02

A distanza di quattro anni dal primo volume di Vittorio Lanternari su Medicina Magia Religione Valori, esce questo secondo volume aperto ai contributi di studiosi italiani e stranieri da anni impegnati nel settore. Dall'antropologia all'etnopsichiatria, recita il sottotitolo, ed è forse questo passaggio che merita attente riflessioni e doverose precisazioni. Grande merito dello studioso è di avere tra i primi coltivato l'interesse per i nuovi movimenti religiosi in ambito sia occidentale sia extraoccidentale, mettendone a fuoco le valenze "terapeutiche" e le radici socioculturali, e sottolineandone l'importanza per il discorso antropologico ed etnopsichiatrico.

I contributi del volume toccano alcuni degli aspetti ritenuti centrali nel dibattito attuale: dall'analisi del processo terapeutico (Kleinmann e Csordas), al concetto di "culture-bound syndromes" (Ciminelli), dai meccanismi endogeni di autoguarigione (Bibeau), alle problematiche suscitate dal fenomeno immigratorio in campo medico e psichiatrico (Bernardi, Cardamone e Inglese), a un'ampia panoramica sui modelli e le esperienze in campo etnopsichiatrico (Beneduce). Vengono poi approfonditi alcuni tra i fenomeni più interessanti e attuali legati al diffuso bisogno di guarigione, e più in generale di salvezza, che pervadono questa fine millennio: le guarigioni miracolose di Lourdes (Gallini), le pratiche terapeutiche dei cristiani carismatici (Charuty), l'esorcismo cattolico (Talamonti). Sono dedicati invece all'analisi dei mutamenti dei sistemi terapeutici all'interno di contesti socioculturali in trasformazione i contributi di Corin sul rito zairese dello Zebola, di Schirripa sulla legittimazione delle pratiche terapeutiche tradizionali in Ghana, di Vulpiani sul pluralismo medico in Bolivia, di Polia sul curanderismo peruviano e di Fiore sull'evoluzione del sistema terapeutico dogon (Mali) tra islamizzazione e tradizione.

La cifra caratteristica del discorso antropologico applicato al variegato mondo delle pratiche e dei saperi terapeutici riemerge negli sguardi attenti che gli studiosi rivolgono a contesti in accellerate trasformazioni socioculturali, mentre sembra un po' perdersi nell'affannoso tentativo di "compiacere" alcuni modi di pensiero in voga nelle neuroscienze. Il passaggio di consegne così stretto tra antropologia ed etnopsichiatria, in cui sembra quasi che l'una si appiattisca sull'altra, corre in realtà il rischio di diventare un abbraccio mortale. Ancora una volta sembra confermarsi quello iato che separa le ambizioni generali dell'etnopsichiatria dalle ricerche locali. Mentre queste ultime appaiono puntuali e convincenti, il discorso generale continua a mostrarsi fragile e in fondo privo di un suo stile cognitivo e interpretativo specifico. Quanto sia difficile costruire un discorso scientifico che persegua fini terapeutici salvaguardando il valore e il peso specifico dei costrutti culturali è ben rappresentato nel volume.

Lascia perplessi il tentativo di fondare la "verità" dei saperi terapeutici tradizionali e di rintracciare l'"efficacia" delle relative pratiche terapeutiche nei cosiddetti "meccanismi endogeni di autoguarigione", che potrebbero apparire come delle configurazioni altrettanto mitiche, ma meno elaborate dal punto di vista "estetico", delle fonti di guarigione individuate dai saperi tradizionali. Anzi ci sarebbe da chiedersi come mai proprio gli antropologi avvertano in maniera così impellente il bisogno di inverare le loro prassi di osservazione e di ricerca sul culturale attraverso questa operazione di radicamento/rispecchiamento nel biologico, sposando teorie che già in campo medico appaiono piuttosto generiche. Ma al di là della validità biologica di tali assunti sembra davvero che si stia riproponendo, mutatis mutandis, quell'operazione che acutamente Clara Gallini descrive nell'apparato istituzionale del santuario di Lourdes, in cui anche la guarigione miracolosa, per affermare la sua natura di prodigio, deve passare attraverso il vaglio medico. Sembra riproporsi quell'idea per cui una pratica può essere efficace, un risultato reale soltanto se si riesce a formularli attraverso termini che rispettino (o forse, meglio, mimino) la logica e il lessico biomedici. Quella che è stata salutata da alcuni antropologi da anni impegnati sul campo come la vittoria sullo scetticismo medico rispetto alla reale efficacia delle pratiche "tradizionali", corre il rischio di rivelarsi invece come la definitiva resa alle pretese egemoniche del sistema di spiegazioni biomediche. Per inciso questo atteggiamento porta con sé una conseguenza paradossale: proprio chi ha sempre criticato con asprezza la dicotomia mente/corpo, l'ispirazione "cartesiana" della medicina occidentale, si ritrova poi, non so con quanta consapevolezza, a radicalizzare tale separazione, reificando "sentimenti ed organi" (Bibeau) di cui si tratterebbe di indagare le reciproche influenze; oppure si ritrova a cercare l'anello di congiunzione tra emozioni suscitate dagli apparati rituali e modificazioni fisiologiche, nel relè neuroendocrino rappresentato dall'ipotalamo, cui non vengono assegnate funzioni poi tanto diverse da quelle che lo stesso Cartesio ipotizzava per la ghiandola pineale.

Come sottolinea Lanternari nel suo saggio introduttivo, si può ritenere ormai generalmente riconosciuto il ruolo del fattore cultura nella concettualizzazione delle nozioni di salute/malattia, ma la vera sfida disciplinare, in cui l'etnopsichiatria è ingaggiata riguarda la pratica clinica (Beneduce). Tale sfida appare sempre più spesso rivolta al sapere medico occidentale, di cui si rivelano le parzialità e le insufficienze non solo nei confronti della capacità di interpretare e di curare le manifestazioni di malessere espresse da popolazioni di cultura non occidentale, ma anche all'interno dello stesso dominio culturale occidentale. E del resto lo spazio che l'etnopsichiatria sembra reclamare all'interno della pratica clinica dovrà necessariamente passare attraverso una profonda revisione di concetti e metodi. Sarà necessario uscire dalla immediata equivalenza normale/anormale = sano/patologico. Quando si dice che alcune manifestazioni etichettate come patologiche dalla medicina occidentale sarebbero invece "perfettamente normali" per le culture che le esprimono, ad esempio, bisognerebbe stare attenti in realtà a non cadere nella trappola di una applicazione troppo stringente dell'equivalenza di cui parlavamo prima. Nel senso che la sfida concettuale consiste proprio nella capacità di riuscire a pensare e a operare all'interno di uno spazio in cui alcune manifestazioni comunque "anormali" - che esprimono sofferenza e disagio agli occhi degli stessi nativi e sono comunque registrate come distanti dall'esperienza quotidiana - non siano però immediatamente catturate all'interno di una entità patologica.

Forse uno degli elementi centrali su cui riflettere è costituito dallo scarto che Bibeau, sulla base di una distinzione introdotta da Corin, individua tra "l'obiettivo esplicito di un rituale terapeutico", espresso dal sistema di credenze del guaritore, e la sua "portata terapeutica", che si situa su un altro livello, che è poi il livello dell'"impatto psicosociale" del rituale stesso, individuato dal ricercatore.Il che poi in un certo senso equivale alla distanza che separa il "punto di vista dei nativi" dai discorsi scientifici che lo valorizzano e lo "spiegano". Ma se è vero che tale scarto o distanza è rintracciabile anche nelle pratiche della biomedicina, è proprio qui che si situa la specificità del discorso antropologico e della pratica etnopsichiatrica. Pertanto risulterà vano il tentativo di colmare tale scarto ricorrendo a ordini di spiegazioni "psiconeuroendrocrinoimmunoetc... logiche", o a sedicenti "meccanismi endocrini di guarigione" (a proposito, se quest'ultimo è un refuso è molto significativo, ma se non lo è forse è ancora più significativo...).

Sembra frutto di una grave confusione epistemologica questo affanno a cercare le basi fisiologiche delle guarigioni ottenute con mezzi magico-religiosi. Risulta davvero difficile trovare un'espressione più adeguata al riguardo delle parole di De Martino, riportate nel saggio di Gallini, quando spiega che per quanto riguarda le pratiche magiche "ciò che le mantiene è la 'regolarità' del successo psicologico-protettivo, e non l'eccezionalità e la irregolarità delle effettive guarigioni organiche". Continua poi Gallini, "sarebbe come dire che l'eccezione può elevarsi a regola, nella costruzione di un piano metastorico in cui quanto 'può essere in un caso' si assolutizza al livello di un 'deve essere sempre'". Ed è proprio sulla capacità di analisi culturale di tali piani metastorici che si può giocare anche la specificità del discorso etnopsichiatrico.

Forse oggi la preoccupazione scientifica principale dell'antropologia e dell'etnopsichiatria dovrebbe essere quella di custodire quegli "scarti", piuttosto che tentare di colmarli ad ogni costo. Ci sono forse più riserve conoscitive e potenzialità scientifiche in queste irriducibilità che in sterili tentativi di rappacificazione disciplinare e nella ricerca di una convergenza assoluta. Ancora con Gallini si potrebbe dire che proprio la contesa "ideologica", la posta in gioco continuamente negoziata e mai definitivamente assegnata, costituisce la sostanza culturale dell'evento/guarigione, che di fronte a qualsivoglia ordine di spiegazioni mantiene un suo nucleo enigmatico, alla stessa stregua dell'evento/malattia.

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