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Il Giappone, nonostante il radicato tradizionalismo, da diverso tempo si è rivelato un ricettacolo di mode estere che spesso vengono poi riattualizzate nelle stravaganti attrattive che spopolano sul mercato del Sol Levante. Pensiamo, rimanendo in ambito orrorifico, al fenomeno moe, dove i mostri subiscono una infantilizzazione estetica che li regredisce allo stato di teneri pupazzetti. Diffusissimo è anche il tentacle rape che prevede scene in cui procaci ragazze, consenzienti o meno, vengono violate da orripilanti creature. Il genere risale al tardo Ottocento, ma è solo negli anni Ottanta che acquista notorietà in risposta alle rigide norme in fatto di espressività sessuale nella pubblica comunicazione. A parte tali stramberie, resta il fatto che la cultura giapponese preserva un’antichissima tradizione folclorica permeata di orrido e grottesco. La stessa mitologia pullula di culti aberranti, profanazioni carnali a opera di esseri abominevoli e nefaste divinità del caos e della distruzione. Tutte caratteristiche che, ai fini del nostro discorso, hanno facilitato l’assimilazione di un altro pantheon, peraltro compatibile a livello iconografico, seppur proveniente da un contesto culturale totalmente diverso. Mi riferisco ai Grandi Antichi partoriti dal genio di Lovecraft, le cui storie sono ormai diventate di interesse globale. "Lovecraft e il Giappone" colma un altro, importante vuoto negli studi italiani sul maestro di Providence e lo fa con notevole esaustività e professionalità. Il testo è infatti una miscellanea di saggi incentrati sulle varie declinazioni del fenomeno Lovecraft nell’immaginario popolare giapponese, delle quali vengono ripercorsi l’avvento e lo sviluppo culturale. Sono tantissime le curiosità che emergono da questa appagante lettura, considerando che molte delle produzioni nipponiche citate sono note anche in Italia.
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