Il 1944 è un anno complicato negli Stati Uniti e nel mondo. In Europa e in Asia si succedono le battaglie più cruente della seconda guerra mondiale; nel penitenziario di Sing Sing a New York è giustiziato Louis Buchalter, Lepke, criminale fondatore della Murder Inc., che controllava i sindacati dell'industria; la United Nations Monetary and Financial Conference, più nota come Bretton Woods Conference, inaugurerà l'ordine internazionale monetario dei decenni seguenti; l'Ibm produce Harvard Mark I, uno dei primi computer digitali elettromeccanici; Franklin Roosevelt vince le rielezioni ed è l'unico presidente americano rieletto per quattro mandati. Arturo Toscanini dirige per Nbc radio il Fidelio in tedesco, omaggio e provocazione di alto valore simbolico. Si potrebbe continuare, ma è indubbio che si tratti di "un'epoca di squilibrata relatività", come scrive Louis Kahn nel saggio Monumentality, ponendosi una domanda che su questo sfondo non può non apparire straniante: "Abbiamo già dato un volto adeguato, dal punto di vista architettonico, a monumenti della nostra società, quali scuole, edifici comunitari, centri culturali? Quali suggestioni, movimenti, accadimenti sociali o politici dobbiamo attendere? Quale evento e quale filosofia devono maturare per indurci a riconoscere i tratti della nostra civilizzazione?". Kahn non è il solo a parlare di monumenti in quell'anno che tanto stride con la spiritualità e la durata che il concetto richiama (tanto che lo stridere non è affatto estraneo al parlarne): è Sigfried Giedion, insieme a José Louis Sert e Fernand Léger, a richiamare i monumenti: "Pietre miliari sul cammino degli uomini" al convegno New Architecture and City Planning a Filadelfia. Ed è tutto il dibattito statunitense a riprendere il tema, come è noto. Ma lo scritto di Kahn ha un intento programmatico più deciso: agli edifici antichi appartiene quella grandezza "che dovranno possedere (
) le nostre costruzioni future". Molti suoi edifici saranno monumenti. Esprimeranno capacità di non consumarsi, di resistere e realizzare quel legame tra sfera collettiva e simbolo che ne fa vere e proprie icone, riconosciute attraverso raffigurazioni ben piantate nell'immaginario collettivo, non solo architettonico. Così la corte dei laboratori del Salk Institute for Biological Studies, che proietta uno spazio metafisico sul Pacifico, o il Palazzo dell'Assemblea nazionale di Dacca, tra foschie e specchi d'acqua. L'architettura di Kahn sarà, appunto, monumento. Il suo fare, nietzschiana potenza (The Power of Architecture è il titolo della mostra curata da Stanislaus von Moos e Jochen Eisenbrand e dedicata all'architetto estone. Vitra Design Museum, 23 febbraio - 11 agosto 2013). Pochi architetti nel secondo dopoguerra hanno costruito con il funzionalismo della seconda parte del Novecento una tale presa di distanza. Il percorso che arriverà a mettere a punto questa distanza (nelle intuizioni, nell'eloquenza della retorica architettonica, nei temi) è ripercorso da Maria Bonaiti, curatrice dieci anni fa di un volume degli scritti di Kahn per lo stesso editore (Architettura è. Louis I. Kahn, gli scritti, Electa, 2002; cfr. "L'Indice", 2002, n. 11). Una sola pagina di premessa a questo secondo volume, cui segue, senza altre mediazioni, la successione di otto capitoli. Sei hanno al centro il legame tra un'architettura e un tema. Due, l'esperienza accademica e il rapporto con l'antico. O meglio l'influenza dell'architettura romana, letta attraverso la capacità visionaria delle incisioni di Piranesi. Il discorso critico sull'architettura è sovrapposto alle vicende biografiche, ai richiami agli scritti di un architetto che è stato al contempo costruttore, insegnante, oratore, disegnatore. Tornano i temi che costruivano l'introduzione al volume precedente degli scritti, facendo perno sull'architettura romana, "fonte di ispirazione inesauribile" come Bonaiti scriveva e come ribadisce oggi. Questo libro "non vuole essere un'opera completa" del lavoro di un architetto, cui peraltro è già stato tributato analogo omaggio, ma lo scavo attorno ad alcuni suoi "capolavori". La nozione ricorre ed è legata alla capacità delle architetture e degli spazi di Kahn di porci domande circa il nostro "essere moderni". Non quindi una, ma l'esplicitazione di alcune tesi, a partire da un apparato documentale stratificato e originale. Così le belle fotografie di Alessandra Chemollo e Fulvio Orsenico sulle architetture di Ahmedabad e Dacca che costituiscono un nono, ultimo capitolo, dichiarando l'attenzione a un pubblico più vasto di quello degli studiosi dell'architettura moderna. Cristina Bianchetti
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