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Anno edizione: 2015
Anno edizione: 2002
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recensioni di Mancia, M. L'Indice del 2000, n. 10
Ci sono psichiatri che si innamorano della filosofia, dunque perché non ammettere che qualche illustre filosofo possa innamorarsi della psichiatria? E in particolare del suo oggetto fenomenologicamente più affascinante, cioè il delirio? È questo il caso di Remo Bodei, che, in queste "lezioni italiane" tenute all'Università di Pavia, con competenza e toccante umanità parla del delirio, partendo dalla metafora contadina che richiama l'atto del de-lirare, cioè andare al di là della lira, parte di terreno compresa tra due solchi. L'immagine di uscire dal seminato richiama un'altra bella metafora di Fornari del campo che diventa selva, cioè dell'ordine che nel delirio è sostituito dal disordine. Nell'introduzione Bodei definisce come "vie sauvage, tutta quell'area dell'esperienza umana - che include passioni, fantasie, credenze o deliri - consegnata in balia dell'irrazionale".
Il libro inizia con un riferimento al pensiero freudiano dove "la riformulabilità del passato è conditio sine qua non della vita psichica", concetto questo che è alla base del transfert. E riprende il concetto che nell'inconscio convive il passato con il presente al punto che "il tempo psichico risulta (...) coesistenza di coesistenza e di successione". L'autore resta rigorosamente nel solco freudiano quando avanza l'ipotesi che la psicosi sorga dal dispiacere insopportabile prodotto dai contenuti rimossi. Difensivamente e adattativamente, il delirante sostituisce il vecchio mondo con una realtà "sua", nuova e diversa, che gli permette di soddisfare i suoi desideri. Ma il nuovo mondo costringe il delirante a un legame "intrapsichico" che condizionerà la sua visione del mondo e i suoi affetti, e che sarà per lui molto difficile sciogliere. Anche se, come dice Freud nel 1938, c'è sempre in un angolino della personalità del delirante una parte sana che osserva, spesso impotente, "il trascorrere della malattia e il suo tumulto". L'adaequatio resta il principio secondo il quale, per lo psicotico, la realtà esterna deve conformarsi alla sua interna. La parte sana è impotente a sradicare il delirio, poiché - dice Bodei - "il paziente ha dedicato anni o decenni all'elaborazione di questo suo nuovo habitat. Resiste pertanto fieramente ai tentativi terapeutici di sottrargli tale 'capolavoro delirante'". È questo il vero dramma dello psicotico: la sua impossibilità ad accettare un aiuto per ridimensionare e trasformare l'oggetto che lo rende folle, ma al quale è legato difensivamente con un nodo che non intende sciogliere.
Con il passare del tempo, il delirio diventa "simile a una valanga psichica, formata dalla frana o dallo slittamento di frammenti di verità storica insopportabili, che nel loro rotolare si ingrossano sempre più di certezze, avvolgendo e nascondendo progressivamente il nucleo di verità". E, citando Jaspers, Bodei precisa: "nel delirio l'intelligenza, invece di scomparire, si pone al servizio del delirio". L'uscita dal delirio sarebbe allora possibile solo se la parte razionale accetta di dis-identificarsi da quella psicotica. Operazione quest'ultima resa difficile dallo stesso "compromesso" che il delirio rappresenta "tra un nucleo di verità soggettivamente intollerabile e un mondo interno o esterno avvertito come invivibile".
Il delirio tuttavia non è prerogativa degli psicotici. Moltitudini di persone in tutti i continenti credono in assurdità e fondano queste credenze nelle parti più irrazionali e "magiche" della loro personalità. In un capitolo molto coraggioso, Delirio della fede, Bodei, riandando al pensiero di Freud, avanza l'ipotesi che "la religione - al pari del delirio -, ha il suo nucleo di verità in eventi del passato che non cessano di ritornare con particolare insistenza e impeto, proprio perché sono stati a lungo rimossi. Nonostante la loro palese assurdità, i contenuti dimenticati hanno carattere 'coatto' [ed] esigono di essere creduti". Nella religione, il distacco dalla realtà, diversamente che nel delirio schizofrenico, è approvato, legittimato, idealizzato, istituzionalizzato. Ne deriva un "delirio collettivo, consentito, organizzato, controllato e teologicamente razionalizzato", dove il principio di irrealtà si sostituisce a quello di realtà in quanto quest'ultima è dolorosa e angosciante a sopportarsi. Dov'è dunque la differenza con il delirio dello psicotico? Bodei sembra più preoccupato di offrire un compromesso "storico", suggerendo che le credenze religiose, per quanto assurde, hanno un nucleo di verità storica rimossa in epoche antichissime e dimenticate. La fede resta "l'equivalente della certezza nel delirio individuale", ma è prodotta dal terrore dell'uomo di fronte al mondo, dal "paradossale tentativo di spiegare l'inspiegabile" e, per disgrazia dell'umanità, dal dubbio che ogni uomo ha riguardo alla sensatezza della propria ragione. Viene taciuta la paura dell'uomo della morte, che genera - come suggerisce l'esperienza psicoanalitica - ansie persecutorie che spingono l'uomo a proiettare la propria ostilità inconscia fuori di sé, creando oggetti bizzarri e persecutori. Come il presidente Schreber insegna, Dio sarebbe il risultato di questa massiccia proiezione. Ed Elias Canetti, in Massa e potere, coglie il senso di questa difesa inconscia che spinge Schreber ad adescare Dio sotto false spoglie femminili (la sua omosessualità) per tenerlo stretto a sé e non separarsi da lui.
Nel passare al rapporto che nella psicosi può stabilirsi tra logica e affetti, Bodei critica Bateson e gli esponenti della scuola di Palo Alto, troppo preoccupati di stabilire le origini del dramma psicotico nei "doppi legami", cioè nei messaggi contraddittori che il bambino riceve dal suo ambiente (la madre in particolare), messaggi a doppio vettore, che si annullano reciprocamente e producono un collasso nella capacità dell'individuo di discriminare tra i vari tipi logici. Questi autori, per Bodei, "non mettono sufficientemente in rapporto il lato logico con il lato affettivo della contraddizione". Quando invece è proprio sul dramma affettivo che si struttura la logica specifica del pensiero delirante e il modo in cui l'affermazione (delirante) è fatta. Risultato della deregulation di questo apparato è la presenza nel pensiero schizofrenico di una logica fondata sulla identità dei predicati delle proposizioni. Si tratta di una forma di pensiero pre-logico o paleo-logico per cui, come racconta Silvano Arieti, una sua giovane malata faceva questo tipo di ragionamento: "la Vergine Maria era vergine; io sono vergine; io sono la Vergine Maria". Si tratta cioè, visto da Matte Blanco, di un processo di "simmetrizzazione" di una classe più ristretta in una più ampia, processo inconscio che è alla base del pensiero bi-logico, cioè che segue una logica aristotelica (che rispetta il principio di non-contraddizione) e una logica non-aristotelica (che non rispetta il principio di non-contraddizione). Ne consegue un pensiero con labilità dei nessi associativi, interferenze tra le idee, distorsioni semantiche, alterazioni fonetiche, neologismi vari e insalata di parole. Il linguaggio appare cioè slegato da ogni vincolo, eccessivo, debordante.
Ritornando all'importanza del versante affettivo nello strutturarsi dei processi cognitivi normali e patologici, Bodei critica - giustamente - la distinzione che molti psichiatri fanno tra delirio e disturbi dell'umore, cioè tra disturbi del pensiero e disturbi dell'affettività. Richiamandosi a Jean-Etienne Esquirol, per il quale la follia esprime un dérèglement des passions, Bodei sottolinea come la logica delle passioni abbia un lato cognitivo e la logica della conoscenza un lato affettivo, per cui la mente si forma dalla integrazione dei due poli, affettivo e cognitivo. La psicosi delirante sorge quando i sistemi logico-affettivi, che per varie ragioni traumatiche sono stati male integrati nell'infanzia, vanno incontro a una disorganizzazione che li costringe a riorganizzarsi su nuovi livelli.
Tuttavia nel momento in cui lo schizofrenico ha strutturato uno stato delirante è pronto a un tentativo di destrutturarlo. Operano così in lui due meccanismi: uno che lo porta a recuperare attraverso le allucinazioni e il delirio il mondo perduto, e un altro che cerca, di ricostruire un'integrità psichica che gli permetta di restare in un mondo vivibile. Con la metafora di guardare in faccia la Gorgone, Bodei si unisce a quegli psichiatri che suggeriscono "di non separare l'esperienza psicotica da quella normale, di rispettare la protesta del paziente contro l'invivibilità della sua situazione, di accogliere il lavoro soggettivo all'opera nel delirio".
Non si può tacere qui la diversità del procedere psicoanalitico: rispetto per il vissuto e la sofferenza del paziente, ma tentativo, attraverso il contenimento e il lavoro interpretativo ed elaborativo dell'analisi, di trasformare l'oggetto interno che porta alla follia, in modo che il paziente presti più ascolto alle parti libidiche e sane della sua personalità. Questa, aiutata dall'analista, dovrà resistere all'invasione della parte delirante e far trionfare la "razon" sulla "razon de la sin razon". "Occorre lasciarlo [il paziente] parlare il più possibile nella propria lingua", scrive Bodei. Aggiungerei, occorre renderlo consapevole che quella lingua è una falsa propaganda della sua parte folle e sofferente, che la parte sana deve poter non ascoltare sostituendola con una lingua critica e simbolica, espressione di un nuovo oggetto interno che resiste alla follia costruito con l'aiuto dell'analista e del suo metodo.
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