In anni in cui la narrazione sembra ripiegarsi su se stessa, lasciando il passo ai territori privati della confessione e dell'autofiction (non senza ragioni, beninteso, come recentemente ha spiegato Raffaele Donnarumma in Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, e prima, con motivazioni diverse ma compatibili, Daniele Giglioli in Senza trauma, Quodlibet, 2011), si può salutare con favore chi tenta di tornare a una narrazione sontuosa, impudica, fantasiosa e roboante, strizzando l'occhio al feuilleton e alla saga televisiva, che oggi sembra averne preso il posto. È questa la strada che sceglie Antonella Cilento con Lisario o il piacere infinito delle donne, storia dichiaratamente barocca, che mescola in dosi massicce amori struggenti e assoluti, gelosie, vendette, morti tragiche, appetiti sessuali, rivoluzioni, epidemie, cappe e spade affilate. Quasi con atteggiamento di sfida, l'autrice propone al lettore questa storia inattuale, paradossale, irreale, esplosiva, eppure, nei fatti, vincente. Come se, in sostanza, la narrativa potesse essere ancora affabulazione, racconto di storie mitiche e incredibili, fatte di eroi imperituri e invisibili dei. Quattro i protagonisti, ognuno porta con sé una storia di eccessi, una visione paradossale: il primo, per spessore letterario, è forse Avicente Iguelmano, vile medico per forza, che cedendo alle proprie tentazioni sessuali riesce nell'inaspettato miracolo di risvegliare Lisario dal suo interminabile sonno, divenendo in tal modo noto e apprezzato da tutti nella Napoli del viceregno. Proprio Lisario, fascinoso personaggio che risente della propria complessità, è il filo conduttore che lega tutto l'intreccio. Muta per una sfortunata operazione alla gola, Lisario è affetta da un'enigmatica forma di letargia che la fa cadere in un sonno profondo per mesi, per ragioni misteriose, forse di natura psicologica. Offerta in sposa al suo salvatore Avicente, fuggirà poi con un amante, andando incontro a una serie di rocambolesche vicissitudini. Accanto a lei c'è Jacques Colmar, scenografo e pittore, che cerca la propria dimensione nel mondo dell'arte fuggendo al suo spasimante, l'estroso Michael de Sweert, ultimo dei personaggi principali, che emerge da una lunga schiera di comparse. Sullo sfondo della Napoli di Masaniello e della peste, dei pittori barocchi e dei soldati spagnoli, delle ricchezze e delle povertà di nobili e plebei, il romanzo scorre deciso, non indietreggiando di fronte alla descrizione di corpi sezionati e di sessualità esplorate, di amori invincibili e violenti assassinii. A reggere le fila, poi, è l'allegria della narrazione: allegria che non è solo ironia, ma è quel piglio tutto partenopeo tra il divertito e l'ammiccante, con il quale l'autrice guarda ai suoi personaggi e alle loro storie. Disilluso e sorridente, questo narratore onnisciente esplora le debolezze delle proprie figure con una complicità spassionata e consapevole, ridendo di loro con la stessa malinconia con la quale si potrebbe ridere di se stessi, persino di fronte alle proprie sorprendenti disgrazie. Quest'allegria si riversa soprattutto all'inizio, quando si racconta, ad esempio, l'infanzia di Avicente, e in particolare nella scena iniziatica del bambino, schifato di fronte a un'autopsia, che pare la Bottega del macellaio di Annibale Carracci; oppure, più avanti, nel tratteggio di personaggi come il faccendiere Tonno d'Agnolo o il notomista Töde. Eppure, a questo tono disincantato e tutto mediterraneo, quasi alla Almodóvar (il risveglio per "meriti" sessuali non ricorda forse Parla con lei? E figure come Bella 'Mbriana o l'estroso Michael de Sweert nei panni del Cavalier Suars non paiono uscite da una pellicola del regista spagnolo?) si alternano punte tragiche di rara crudezza, come nella descrizione dell'epidemia di tifo. A tratti, però, l'autrice sente la necessità di ostentare troppo le proprie fonti, la cui importanza è chiara e ovvia e il cui utilizzo è scontato, in un romanzo che si fonda sulla ricostruzione storica e su modelli barocchi. Ribadirlo tuttavia non fa che gravare sulla felicità narrativa. È il caso soprattutto del personaggio di Lisario, che già a sedici anni scrive appassionate lettere alla Madonna in cui non fa che confrontare le proprie esperienze con quelle dei racconti di Cervantes, con le tragedie di Shakespeare, con il poema di Ariosto e addirittura con Dante, la cui opera era allora assai meno conosciuta di oggi. Questo toglie mistero a una figura il cui corpo afono parla il linguaggio del sesso, prima, e dell'amore innocente, poi. Un peccato dell'autrice, anche se veniale, dovuto per lo più all'ansia di giustificare il proprio lavoro, che forse appariva fin dalla stesura un'opera inattuale. Ma la narrazione non può che trovare in se stessa la propria ragione di essere. Alessandro Cinquegrani
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