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Il libro di Giobbe e il destino del popolo ebraico - Margarete Susman - copertina
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Dettagli

1999
22 ottobre 1999
164 p.
9788880570783

Voce della critica


recensioni di Ventura, M. L'Indice del 2000, n. 04

Bellissimo libro, questo della Susman, scritto nel 1946, con le ferite ancora tutte aperte dello strappo tremendo che aveva costretto gli ebrei tedeschi, "non volontariamente, bensì artificiosamente, con violenza, con i mezzi più abbietti", a rinnegare quella Germania di cui avevano condiviso spirito, essenza, destino e pensiero: "Abbiamo dovuto lacerare noi stessi per non essere più tedeschi, e lo abbiamo fatto". E del dolore di questa "automutilazione" è segno evidente, come fa rilevare il curatore, la tenacia con cui Margarete Susman continua a usare, per le sue citazioni bibliche, la versione di Lutero, e non quella, per esempio, di Rosenzweig e Buber, che pure aveva difeso dai detrattori.
Ben tradotto e annotato - e arricchito da una breve Notizia sull'Autrice e da un ottimo saggio di Gianfranco Bonola, La testimone cieca, che si apre con una poesia dedicata da Paul Celan a Margarete Susman un anno prima della sua morte - il libro affronta, in un'analisi profonda, senza difese, "l'insolubile nodo della teodicea esemplato in Giobbe (e in Auschwitz) (...) con la pretesa di poterne scrutare il senso" (Bonola), rifiutando la possibilità del rifugio nel silenzio mistico di fronte all'inenarrabile e imperscrutabile, e riaffidandosi con consapevole, dolente speranza al potere terapeutico della parola.
Libro da leggere e da meditare, anche per chi, come me, guarda con diffidenza ogni tipo di "teologia della persecuzione" - che Margarete Susman rintraccia addirittura nel Midrash. E anche per chi sente in tante affermazioni dell'autrice il rischio mortale insito - per l'uomo - nella fascinazione per il limite, nel voler "scandagliare quel sentore della verità inviatogli dalla profondità del mistero di morte e perdizione".
Libro pieno di affondi di incredibile lucidità - come quando parla dell'ebreo che "attendendo amministra la vita" e di un Dio che nella creazione "traccia il confine della potenza dell'uomo", o come quando rivendica come nostro soltanto lo "sconfinato, inestinguibile lutto", al posto di un perdono che sarebbe "superbia e infedeltà".Lucidità che però viene sopraffatta da un messianismo tutto proiettato verso il futuro, che dimentica - e tradisce - l'amore così intensamente ebraico per il presente e trascura la pedestre, farisaica, sanissima preoccupazione che nella Mishnà raccomanda di non indagare "ciò che sta sopra e ciò che sta sotto, ciò che sta davanti e ciò che sta dietro", la salutare attenzione rabbinica ai cibi e alle pentole, l'imperativo della Torà di "distinguere" il sacro dal profano e l'uso di benedire quella distinzione che protegge lo spazio del vivere quotidiano dalla violenza dal sacro. Lucidità che si perde quando si confonde "finitezza" con "impotenza" o quando si vede Israele (come Giobbe) come "il folle tentativo di quanto è perituro e impuro di purificarsi al cospetto dell'eternità", come il testimone della "verità", quando si dice "Perché Israele non è realtà delimitata: è un 'illimitato senso'".
Ho sempre qualche remora ad accostarmi al Libro di Giobbe, espressione per me di una svolta tragica nella letteratura biblica, fulcro di quella vena sapienziale, intrisa di misoginia, che si interroga sugli assoluti alla inflazionata ricerca di una perfezione non umana, di un senso al di là di ogni senso possibile.Mi respinge soprattutto la sua concezione, così poco ebraica, di una "colpa" legata a un'impurità originaria iscritta nel corpo dell'uomo "nato di donna", una "macchia" da cui si cerca costantemente di purificarsi. Quando mi trovo di fronte a questo tipo di teologia, non estranea all'ebraismo ma che io sento fortemente contaminata di elementi spurii, quando sento parlare di Israele che espia la "colpa di impurità del genere umano", avverto il rischio di un "delirio di purezza" che può arrivare a giustificare i persecutori, o a banalizzarne la colpa (anche se questo non è il caso di Susman); mi torna in mente una frase di Lévinas sulla "Persecuzione sotto forma di Rivelazione vissuta", e come lui sento la deformazione che ha portato tanti ebrei a fare di Auschwitz l'evento fondante della loro appartenenza, quelli per cui l'identità non è più frutto della folgorante rivelazione nel deserto, dell'evento unico e irripetibile in cui, nel totale sconvolgimento dei sensi, l'occhio vedeva il suono; non è più nemmeno la faticosa ma appagante ricerca del proprio anello di congiunzione in una storia che da quell'evento ancora si dipana intrecciando catene di parole e di sensi, ma è lo schianto della scissione da quella radice e il reinnesto forzato dei rami troncati o caduti nel crogiuolo di morte dei forni crematori.
Mi torna in mente una scritta, vista forse su un calendario illustrato con immagini di menorot antiche e moderne: "Judaism is life - Judaism is light".L'ebraismo è vita, l'ebraismo è luce... o, se vogliamo, l'ebraismo può essere anche "lieve".

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