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Descrizione


La libertà d'espressione è associata al mezzo che ne rende possibile l'esercizio, la stampa, al punto che il "contenitore" gode delle stesse tutele del "contenuto". La centralità strategica e le modalità di diffusione dell'informazione fanno sì che non sia sufficiente concepirla solo come l'espressione di un diritto individuale, ma rendono necessarie nuove regole per chi crea, diffonde e fruisce delle idee. Secondo l'autore chi vende informazioni deve sottostare alle stesse regole di chi vende altri beni, mentre la libertà individuale deve essere potenziata tramite un allargamento delle fasce di utenti che hanno accesso alle fonti e alle reti di telecomunicazioni.
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Dettagli

2004
11 novembre 2004
167 p., Brossura
9788815097941

Voce della critica

La lettura del brillante e documentato saggio di Zeno-Zencovich sul ciclopico tema della libertà di espressione ha provocato in chi scrive un crescente iniziale entusiasmo, cui è seguita una imprevista delusione. I passi dell'autore partono dal ricordo delle solenni affermazioni settecentesche per arrestarsi di fronte agli odierni problemi (e ai costi) che l'alfabetizzazione informatica pone ai governanti e ai cittadini. L'inizio è limpido e folgorante: la libertà di manifestazione del pensiero è un diritto umano fondamentale e come tale la tradizione giuridica occidentale lo ha considerato. Eppure un approccio realistico al tema svela un'evoluzione da segnalare. Il principio ha cioè progressivamente perso il senso di libertà politica degli individui e dei loro gruppi esponenziali per assumere la tutela di una funzione strumentale alla diffusione del pensiero altrui, e cioè dell'attività di impresa nel settore dei massmedia.

Anche se è innegabile che vi siano zone di "contiguità e di sovrapposizione", la distinzione tra il manifestare le idee e organizzare un'impresa per vendere idee appare piuttosto evidente. Oggi, del resto, i mezzi di comunicazione di massa - e cioè gli strumenti largamente più efficaci per veicolare il pensiero - fanno capo a imprese, e dunque rispondono a logiche imprenditoriali. Pertanto, in conclusione, l'esercizio di un diritto si è trasformato in ricchezza e potere per chi lo gestisce.

Paradossalmente - ricorda l'autore - si potrebbe dire che, in una democrazia, il potere effettivo dei mezzi di comunicazione di massa è altamente antidemocratico perché esercitato da un gruppo ristretto di soggetti, non scelti dai cittadini e senza sostanziali controlli sul loro operato. Una sorta di "quarto potere" usurpatore e incontrollato. A questa violenta provocazione, che legge i richiami alla libertà di espressione degli organi di stampa semplicemente come mezzi per accrescere il loro potere, segue la coerente demolizione del mito dell'opinione pubblica, feticcio costruito dai mezzi di comunicazione per legittimare se stessi.

Quando poi l'attenzione dell'autore si appunta sul mezzo televisivo l'approccio sembra mutare. Che la libertà di manifestazione del pensiero sia principio illusorio, non praticato nella realtà, è particolarmente provato dalla radio-televisione, il cui regime è "quasi tutto assoggettato a vincoli". Di qui l'efficace tentativo di smascherare la tesi che ha da sempre giustificato i vincoli, e cioè la scarsità delle frequenze, e quella che ha sempre giustificato le pretese governative sul mezzo, e cioè la necessità di salvaguardare il servizio pubblico.

A questo punto ci si attendeva una proposta articolata a tutela del diritto d'accesso dei cittadini, una denuncia delle situazioni di oligopolio informativo che accentrano nelle mani di pochi la gestione dell'attività di diffusione più "influente", oppure un riconoscimento della necessità di assicurare comunque una forma di servizio pubblico.

Invece poco o nulla. Le preoccupazioni dell'autore, evidentemente sedotto dal dogma del mercato, sono altre. Le comunicazioni politiche non vanno regolamentate ma semmai autoregolamentate (dalle imprese che notoriamente non hanno alcun interesse o legame politico?). Il pluralismo del mezzo radiotelevisivo non può essere assicurato da una pluralità di imprese perché non è compito loro assicurare valori extraeconomici come il pluralismo. Con un paradosso l'autore sostiene che la qualità dell'ambiente non è assicurata da una molteplicità di produttori di detersivi.

Ma ciò significa che è preferibile un'informazione politica gestita da una sola impresa? O che è preferibile utilizzare un solo detersivo?

Forse il discorso va ripreso distinguendo i detersivi dai valori, e poi individuando quelle soluzioni che l'autore stesso auspica: "Riconquistata la dimensione individuale della libertà di espressione, chiarita la sua profonda differenza dall'esercizio dell'attività di impresa nel settore dei mass media, occorre chiedersi come fare in modo che si tratti di una libertà effettiva". E quanto occorreva chiedersi, ricordando che la libertà di espressione non può essere separata dalla gemella libertà di informazione.

Un'osservazione finale: per uno studioso italiano che pubblica a fine 2004, riuscire a parlare di media, mercato e potere senza citare le distorsioni del conflitto di interesse, i progetti di eliminazione della p ar condicio, i duopoli nella raccolta pubblicitaria, la legge Gasparri e così via denota un peculiare virtuosismo.

F. Gianaria e A. Mittone sono avvocati a Torino

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