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Il Levante - Mircea Cartarescu - copertina

Descrizione


Inno alla libertà e alla poesia, Il Levante narra le imprese di Manoil, giovane coraggioso che incita il suo popolo alla rivolta per far cadere il despota fanariota, crudele e corrotto. Durante il suo periplo – nei mari, sottoterra, nei cieli – è accompagnato dalla sorella Zenaida e dal suo spasimante francese Languedoc Brillant, dal pirata greco Iogurta e da suo figlio Zotalis, e infine dall’erudito Leonidas, detto l’Antropofago, e dalla sua consorte Zoe. Epopea piena di vita, suddivisa in dodici canti e intessuta di componimenti in versi, di racconti d’avventura e storie d’amore, come pure di digressioni scientifiche e postmoderne, seguendo una tradizione che passa dalle Mille e una notte all’Asino d’oro fino a Jacques le fataliste, questo libro originale e gustoso è senza dubbio uno dei migliori di Mircea Cărtărescu.
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Dettagli

2019
23 maggio 2019
221 p., Brossura
9788862433624

Voce della critica

In un mondo senza confini e in un XIX secolo che vive nell’atemporalità dei racconti epici, il giovane Manoil sogna la rivolta. Il popolo della Valacchia è, infatti, da troppo tempo piegato dai soprusi dei crudeli fanarioti: occorre un giovane coraggioso e dai forti ideali di libertà e giustizia che possa guidare la sua gente verso la riconquista contro i despoti. Manoil dovrà trovare aiutanti e compagni, viaggiando in lungo e in largo per tutto l’Oriente, unendo le sue forze al pirata greco Iogurta, alla sua ammaliante sorella Zendaia, a un furfante francese e a un erudito soprannominato “l’Antropofago”, in un’avventura ai limiti del realistico, nonché della fantasia.

Il Levante è un libro complesso; non perché tratta di temi complicati, né perché risulta ostico alla lettura, ma, piuttosto, perché questo libro di Mircea Cartarescu presenta una tensione/dimensione che val di là del letterario, dell’epos di cui è impregnato. Innanzitutto, è necessario specificare che è un poema, e che la forma in prosa è un adattamento dell’opera tradotta.
L’avventura di Manoil è solo lo strato superficiale (e che superficialità, dato che vibra in maniera impressionante di attualità) di quest’opera; Il Levante mette in gioco (e nel gioco, quello narrativo) questioni metaletterarie, di tradizione culturale, di confronto con i grandi del passato, del ruolo del narratore e della capacità propria della fantasia.

Partiamo proprio da quest’ultimo elemento. Fino a dove può spingersi la fantasia, e che rapporto deve rispettare non solo con il lettore, ma con l’autore stesso? In Il Levante ogni cosa, anche il più piccolo dettaglio vestiario, è riportato al testo con uno sforzo immaginativo, e l’avventura stessa di Manoil porterà il protagonista verso scenari, luoghi e situazioni altamente fantasiosi e inediti. La storia dei personaggi è una storia di rivalsa, di riscossione del positivo sul negativo, del debole sull’oppressore, e quindi è un racconto dal forte valore civile; eppure, a fianco (o, meglio, sopra) di questo, Cartarescu innesta una seconda connotazione, quella dell’artificio dell’opera, della letterarietà autosufficiente – nonostante, generalmente, si pensa che questi due aspetti si escludano a vicenda. La pittoresca epopea dei personaggi del libro cela una seconda fatica, che è quella del narratore di forgiare un poema dal massimo valore poetico e artistico, con cui possa raggiungere le vette dell’Olimpo o del Parnaso. La fantasia, che per il lettore è spesso gioco ed evasione dalla realtà, per l’autore è impegno che va oltre l’umano, in quanto si tratta di inventare (o re-inventare) l’inesistente nel già esistito, farsi dio della propria creatura/creazione, intrecciando narrazioni e destini, perennemente in bilico tra il controllo e lo sfondamento verso l’inconscio. «Non so perché lotto per terminare questo poema, la mia epopea di halva […], quando esso non è forse che un’illusione: non mi porta né gloria né danaro e nemmeno soddisfazione, e non so, credimi, non so se abbia un qualche scopo. Mi do pena per scavare un tempio in una roccia di halva, metterci sopra dei piccoli bonbon e gherigli di noce come su una coliva, il cibo rituale per i nostri defunti, sognando sempre che sia una reggia».

Lo sforzo di attingere a tutta la propria creatività si traduce, in Il Levante, in uno stile massimamente rigoglioso e ricercato, dove ogni immagine è particolareggiata fin nei minimi dettagli, in una dimensione tendente al barocchismo: in questo senso, Cartarescu mette a dura prova non solo le sue cultura e immaginazione, ma anche il traduttore del libro. A questo aspetto, va aggiunto l’elemento più importante del libro, ovvero l’intertestualità, il confronto con i modelli presenti e passati, il rapporto con la tradizione, gli elementi di citazione e rivisitazione.

Secondo i rètori classici, la composizione letteraria attraversava le modalità di aemulatioimitatio e interpretatio – per cui, la poesia conteneva un’imprescindibile dimensione dialogica con altre opere, sistemi immaginativi altrui e linguaggi già perlustrati. Il Levante è soprattutto un poema che si cimenta in questa definizione di letteratura, e la sua interpretazione – nonché lettura – non può prescindere da essa. Lo si può notare, immediatamente, dal fatto che contiene la commistione tra prosa e poesia, con componimenti in versi che affiorano dalla voce dei personaggi a quasi ogni pagina. Al di là di questo, non solo è il narratore che, più che occasionalmente, getta ponti tra la sua opera e grandi modelli della tradizione occidentale, richiamando a sé Dante, Omero o Shakespeare; ma, al di là del “semplice” pastiche citazionistico tipico della natura post-moderna di questo poema, se quello di Manoil è un viaggio attraverso i mari, le terre e i cieli del Levante (mondo di svelamenti fantastici e di fabulae, guardandolo con gli stessi occhi de Le mille e una notte), quello del narratore è un viaggio attraverso la tradizione poetica romena. A un certo punto della propria avventura, Manoil si ritrova a dover passare attraverso un percorso scandito da alcuni eremiti, tanti quanto i maggiori poeti (romeni, in questo caso) del XX secolo: ogni volta che qualsiasi autore poggia la penna sulla carta, implicitamente è costretto a fare lo stesso.

Il Levante (come una grande creazione letteraria) è un’opera sopraffina che scaturisce nel punto di equilibrio tra lo slancio della fantasia sfrenata e la forza di gravità esercitata dalla tradizione non solo romena, ma occidentale e mondiale. Questi appena trattati sono solo alcune delle possibili discussioni che questo libro di Mircea Cartarescu, risalente agli anni Novanta ma (per fortuna) arrivato a noi solo oggi grazie a Voland, può suscitare a diversi gradi di attenzione e preparazione nei confronti del testo. Di conseguenza, Il Levante sembra confermare quel luogo comune secondo il quale le opere letterarie altissime sono in grado di dire e comunicare anche molto al di là della loro semplice dimensione testuale.

Michele Maestroni

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Tradotto in lingua italiana da Bruno Mazzoni e pubblicato da Voland Il Levante (221 pagine, 17 euro) è un libro che fa pensare a una sorta di divertissement da parte dell’autore, voce tra le più complesse e raffinate della letteratura europea contemporanea.

Si tratta della peregrinazione in dodici canti del giovane eroe Manoil, in rivolta contro la crudele dominazione del regime fanariota (greco) sul suo popolo, romeno. Tra atmosfere che ricordano a tratti il Salgari di Capitan Tempesta e a tratti il filone filosofico-narrativo di opere anche molto antiche come quella di Apuleio, il protagonista e il suo fedele manipolo di alleati, tra cui compaiono la bellissima sorella Zenaida e il suo amante francese Languedoc, il pirata Iogurta e il suo focoso figlio Zotalis, nonché un saggio eremita con la sua sposa rivoluzionaria Zoe, attraversano peripezie per mare e per terra e persino in mongolfiera, in pagine dal sapore rocambolesco dove il fervore della rivolta e lo struggimento per la libertà si condensano ora in vive e argute descrizioni ora in intere pagine di componimenti in versi, con ampio spazio a dialoghi dal sapore rituale e prezioso alla Mille e una notte oppure ad ascese vertiginose nell’iperurano della filosofia cosmica.

Da segnalare che, insieme ad Archivio dei bambini perduti di Valeria Luiselli (La Nuova Frontiera) e a Quel che si vede da qui di Mariana Leky (Keller), Il Levante fa parte del Premio Annibal Caro 2020 dedicato a figura e ruolo del traduttore, grazie al magistrale lavoro di Mazzoni.

Ci sono due modi per leggere questo libro, il primo è quello estetico-ludico, il secondo è quello colto-letterario. Mentre il primo si basa sulla fruizione della trama e dei personaggi, sull’avventura, il secondo è incentrato sul discernimento, sul riconoscimento cioè dei riferimenti intertestuali, delle citazioni e degli omaggi, degli agganci a correnti letterarie e a opere del periodo di Mircea Cartarescu. In questo secondo caso ci viene in aiuto la preziosa postfazione di Bruno Mazzoni, curatore dell’opera oltre che suo traduttore.

Nella postfazione lo studioso definisce il libro «un’opera letteraria temeraria, oltre che volutamente complessa, e all’apparenza anacronistica», «una composizione metaletteraria di ampio respiro, in dodici canti» che ha il preciso intento di «celebrare poeticamente […] autori più noti e meno noti, tracciando così un profilo essenziale della storia della poesia romena». Proprio perché l’orizzonte letterario che fa capo alla cerchia della Facoltà di Lettere di Bucarest è sconosciuto ai più, ci è utile apprendere nozioni quali ad esempio l’esistenza del Cenacolo di poesia del Lunedì o del cenacolo dedicato alla prosa “La Giovinezza”, oppure scoprire che Cartarescu tira in ballo, attraverso un elegante gioco di allusioni, non solo eminenti poeti di spicco del suo ambiente, ma anche Dante (nel canto VII Manoil ha una guida che fa pensare a un Virgilio) e Ovidio, oltre che nel corso del testo Borges e molti altri eminenti scrittori.

Manoil, che ci ricorda un giovane e ardente Lord Byron, è animato dal fuoco della poesia, ha studiato presso le migliori scuole europee, vuol liberare la patria oppressa: grazie a lui apprendiamo che il suo popolo, tramite i Daci dei Carpazi, discende nientemeno che dai Romani, di qui l’ardire bellicoso e la nobiltà dei natali.

Cartarescu ci propone quasi all’inizio una delle parole chiave della sua cultura, assimilabile a una saudade portoghese, il dor, quando dice che «la rosa della sera dischiusa dal Levante» […] «sparge petali di porpora nel cielo radioso, essa adombra con vampe d’ambra le acque scintillanti, fa scivolare negli animi la fiamma di uno sconfinato dor: desiderio di partire, brama d’armi, nostalgia di mari, bisogno d’amore».

Questo struggimento, o languore, si accorda bene con passi lirici dedicati alla volta celeste, come «Un liocorno e un centauro li seguivano, e dopo di loro un naviglio stinto, dorato, caravelle e galeoni si perdevano sul raggio della luna fino alla linea dell’orizzonte. Nei cieli brillavano appena l’Orsa, Acquario e Orione». Altri passi sono invece dedicati al mistero dell’universo, «Il nostro universo è un punto fra centinaia di migliaia di punti che si adunano per formare, a un altro livello, altri mondi di fuoco che, visti da molto lontano, sono cristalli e rame, conchiglie, salviette, pruni o nuvole», mentre forte è anche il concetto della reciprocità, dell’essere “personaggi” anziché “autori”, in una specie di gioco alle scatole cinesi: «Magari vengo scritto a mia volta, con la mia vita e l’alone che mi sta intorno che è il Mondo, da un altro autore che cerca l’uovo e non riesce a trovarlo in un mondo gigantesco».

Il senso di vertigine è amplificato dagli interventi autoriali volti a far sì che il lettore assimili il libro a un teatro, un po’ come a pagina 45 in chiusura di capitolo: «Macchinisti, girate la manovella! Preparate una nuova scena!».

Vivacissime sono le descrizioni degli aspiranti rivoluzionari, in realtà un manipolo di pirati, «Ma a che pro? I briganti cantano, si versano il vino sopra i capelli e gridano, ingollando sfogliatelle come fosse polenta, buttano giù le olive con tutti i noccioli e i limoni come fossero mele e incidono il nome dell’amata sul legno del tavolo». Non sembrano le soldataglie del Duca d’Auge di Queneau? O i pastorelli di Giono in Nascita dell’Odissea? C’è davvero del divertimento.

Per dar meglio l’idea del libro vorrei fare una traversata di stralci che esprime bene il carattere de Il Levante e quello del suo autore, prendetela come un grand tour.
A pag 77 si autorappresenta, «Posso far sì che tu perda il senno, posso farti volare, ma io stesso cosa farò, io che conduco una vita dissipata come la polvere tra casa e ufficio, in un secolo senza ali, privo di slanci, in una dimora senza riscaldamento?».
A pag 89 c’è pure un concerto rock, «Un sibilo o un ululato ti spingono a guardare lo Stige, come si sente nell’album Cantafabule, del ’75, del gruppo rock Phoenix».
A pag 92 va a capo nell’altro capitolo, il glo- (cambio capitolo) Canto VII -bo di quarzo.
A pag 111 abbiamo i pirati e Rubens, «Nel frattempo le tartane dei pirati, con le stive colme di tesori, frutto di saccheggi, ammassati in cassoni putrescenti, proseguivano il loro tragitto in mezzo agli sgombri che tirano in continuazione la testa fuori dai flutti», «L’eterno mare azzurro si distende sul suo letto di spuma come un’etera bionda, procace e voluttuosa, apparsa a Rubens in qualche sogno».
A pag 121 finalmente ci dicono come leggere il libro, «Sii compassionevole, o leggiadra lettrice, e prendi da questo libro solo quanto ti aggrada».
A pag 130 l’autore è in preda allo sconforto riguardo al suo libro, «A volte mi sembra inutile, altre provo nostalgia e torno a rileggerlo a caso… Non so, non so cosa dire. È il 1° aprile 1988. non c’è granché sole fuori. Batto alla mia macchina da scrivere, in cucina».
A pag 136 colluttazione tra l’autore e il suo protagonista, che “esce” dalla pagina!
A pag 139 Mircea è finito nel libro: « – Mircea, guarda la volta celeste: che drago al tritolo! Guarda i miliardi di stelle tra le fronde del carpino, ci sono notti distese su notti, distese su altre notti, ci sono notti dentro notti e notti attraverso notti, le costellazioni in moto continuo, un clinamen di fuochi».
A pag 149 si definisce il Levante, «O mio sorriso, tu sei Il Levante, tristezza e assillo, voi siete l’orchidea che io decanto in mattine infervorate, nella cupa luce del caffè riflesso nello specchio».
A pag 173 abbiamo la lettrice e Guerre Stellari, «Tu che, adagiata in poltrona, leggi Il Levante, hai visto ieri l’altro, alla televisione bulgara, il film E la nave va? […] Sappi dunque che la battaglia di cui leggerai più avanti è filmata meticolosamente, con effetti speciali e sovrapposizioni di immagini, tagli, animazione fatta al computer, come in Guerre Stellari».
A pag 180 si vedono i numeri di pagina nel paesaggio (e Mircea attraversa tre canti della propria opera in mongolfiera, un po’ come Alice attraverso lo specchio): «Guarda, Bucarest risplende come fosse ricoperta d’oro, così tante sono le stelle luminose. O nostro Autore, verso sud si vedono enormi cifre disegnate sulla pianura vuota. Cosa sono?

– Sono le cifre delle pagine della mia opera. Ogni pagina del Levante ha la sua numerazione».

All’altezza di pag 189 gli ottocenteschi eroi sbucano nella Bucarest di oggi, «automobili e camion in un traffico agglomerato… Nastratin e Leonidas restano a bocca aperta per la sorpresa quando vedono come ancheggiano alcune squinzie in jeans».
A pag 192 e 193 il manipolo dei più fedeli, i personaggi più amati, viene a casa di Mircea a sorpresa, mentre la sua compagna Cristina «nella camera da letto, ascolta musica dal mangianastri. […] – Mircea, vedi chi è – urla Cristina, coprendo la voce di Lennon che viene dalla cassetta. […] Esito: e se è il tizio della luce? Con che cazzo la pago? Tolgo la catenella e giro la chiave. Spalanco l’uscio, resto di sasso».
Cartarescu e i suoi amici personaggi ripercorrono tutta l’avventura bevendo caffè nel suo appartamento di Bucarest, finché a pag 199 viene posto il dilemma cruciale dello scrittore, il suo rovello. Si tratta della scelta tra Poesia e Libertà, ovvero se l’uomo colto debba «Proteggere se stesso per diffondere, nella sua triste solitudine, la luce nel mondo, oppure lottare contro il potere mettendo a repentaglio la propria testa?».
A pag 202, rasenti al termine, si conclude anche l’escalation che ha visto progressivamente infrangersi il vetro della realtà: e dopo il protagonista che esce dal libro, l’autore che vi entra, e i personaggi che sconfinano nel mondo reale, il lettore viene invitato a unirsi al manipolo di cuori coraggiosi e a brindare assieme, nella finale dissolvenza che, come un ultimo gioco di specchi, ribalta nuovamente la prospettiva impedendo di fatto un vero “finale” del libro, e suggellando così con tale trovata gli intenti del suo creatore.

Recensione di Teodora Dominici

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Mircea Cartarescu

1956, Bucarest

Scrittore, poeta e saggista rumeno.È stato esponente di spicco della Blue Jeans Generation, corrente nata negli anni ottanta all'interno del panorama letterario romeno.Nel 1980 consegue, presso l'Università di Bucarest, una laurea in Lingue e in Letteratura. Successivamente lavora come professore in un liceo linguistico, come funzionario ed editore della casa editrice Caiete Critice. Dal 1991 al 1994 è professore all'Università di Bucarest; insegnerà anche ad Amsterdam per un anno. Il suo esordio nella scrittura data al 1978, quando pubblica una novella sulla rivista România Literara.Oggi viene considerato uno fra i più interessanti e raffinati scrittori dell’Est Europa, e il più importante autore romeno contemporaneo. I suoi libri...

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