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Forse al punto più alto del sentire il vero trofeo che ci avvolge non è che alloro di silenzio. Giungere a una corrispondenza così profondamente fraterna fra il linguaggio e il pensiero, tra il sapere e il cantare che non resta, nelle secche di quel travaglio pur stupendo, che l'alba di un umile silenzio, di un vuoto lacerante dentro ogni minimo accenno d'azione: "Ché il mio indefinibile sentimento di felicità eromperà in me piuttosto da un lontano, solitario fuoco di pastori che alla vista del cielo stellato; piuttosto allo stridere di un ultimo grillo, vicino alla morte, quando già il vento d'autunno incalza nuvole invernali sui campi deserti, che al maestoso rombo dell'organo". Un raccoglimento fra resti, fra soglie, fra stralci di sentimento strappato alle ombre del comprendere dove l'animo bruca come fra elemosine casuali. Perché "un qualcosa d'indicibile mi costringe a pensare in una guisa che mi appare perfettamente folle nel momento ch'io tento d'esprimerla con parole". Come può accadere, come si può dare questo frutto stentato che non cresce nè sazia nel desiderio intenso del voler fare scrittura? Come stringe e strema gli antri della mente questo laccio interiore figlio della più alta ricettività fino a deporre ogni sforzo omaggiando la semplicità più estrema che ci attornia: "un insetto, una pietra di muschio, un melo intristito", piuttosto che la gioia di un verso nato dalle viscere di una animo poetico. Ecco l'assenza che solca e naviga le acque della poesia tremante, il caduco che smorza e che sovrasta ogni padronanza, quel sembrare non più identificato, vago e smarrito fra le pieghe del cuore, il divino di dentro che si rovescia in zolla di deserto avara di fioritura. Libro di impressionante grandezza, spasimo e lotta di un uomo che soggiace alla potenza dell'inespresso, al buio del taciuto, nel reame delle sue tempie dove il sentito e il mancato, l'ampiezza e la rassegnazione, si tengono per mano, sfinite e risolte, assetate e imploranti.
La lettera di Lord Chandos si pone come approdo mediano della parabola poetica hoffmanstaliana e come vero e proprio punto di non ritorno. L'enfant prodige, precocemente padrone della Vienna fin de siécle, vive una crisi decisiva che segna la fine del periodo dello "sfarzo pomposo" e della "tronfia decadenza", soppiantato dall' alba di una crisi altrettanto profonda che resterà insoluta sino alla morte del poeta: quella del soggetto e della sua padronanza sul reale. Così Chandos, voce narrante dell'epistola, si rivolge all'amico Bacone che, preoccupato, gli ha scritto per interrogarlo sulla motivazione della cessazione della sua attività poetica. Egli sembra soffrire di una "malattia dello spirito", un'ignavia che lo ha costretto a cessare ogni attività speculativa, dopo che egli si era sempre sentito "il centro delle cose". A distruggere la sua tranquillità è stata una sorta di malattia del linguaggio, a cui è seguita la continua epifania degli oggetti, oggetti che sembrano animarsi e trasmettergli un significato trascendentale non trasponibile in parole. Il soggetto è al suo crepuscolo, e con esso crolla l'unitarietà del reale, il linguaggio, il mondo austriaco, il senso del tutto. Forse solo nell' "Andreas" Hofmannsthal troverà uno spiraglio di luce, un delicato punto di equilibrio ove tutto si tiene di nuovo armonico, ma l'incompiutezza del romanzo testimonia l'impossibilità di superamento della crisi. Chandos non scriverà più, non altrettanto farà per fortuna Hofmannsthal, ponendosi però un nuovo paradigma basale: "Tacere il più possibile e tuttavia restare sereni".
L’opera, introdotta da una bella introduzione del germanista e scrittore Claudio Magris, è tanto breve quanto densa di significato. Ha una forma paradossale, in quanto si tratterebbe (nella finzione letteraria) di una lettera scritta da Lord Chandos a Francesco Bacone, per giustificare “la propria totale rinuncia all’attività letteraria”. Lord Chandos descrive così la sua situazione: “ho perduto ogni facoltà di pensare o di parlare coerentemente su qualsiasi argomento”. Egli sperimenta un inspiegabile disagio solo a pronunciare “le parole ‘spirito’, ‘anima’ o ‘corpo’ “. E’ una sorta di afasia, ma non dovuta, come si potrebbe immaginare, a un inaridimento o a un impoverimento della sua esperienza interiore, bensì per alla sua straordinaria ricchezza e intensificazione. Esperienze di questo tipo, che potremmo definire “epifanie”, sono momenti in cui “una qualsiasi creatura insignificante, un cane, un topo, un insetto, un melo intristito, una carrareccia che si snoda sulla collina, una pietra muscosa vengono a significare per me assai più dell’amante più bella e generosa nella più felice delle notti”. Lord Chandos sperimenta in quei momenti “una solleticante infinita rispondenza”.
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