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Leggenda e realtà del colesterolo. Le labili certezze della medicina - Marco Bobbio - copertina
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Leggenda e realtà del colesterolo. Le labili certezze della medicina - Marco Bobbio - copertina

Descrizione


Il libro presenta una valutazione approfondita, ma del tutto alla portata del lettore non medico, dei dati scientifici pubblicati sull'argomento. Ne emerge questo messaggio: la scienza non produce certezze, nè offre regole universali. Le conoscenze specifiche sono come un puzzle che non si potrà mai completare, in cui ogni pezzo aiuta a capire qualche particolare del quadro, ma può anche modificare le ipotesi precedentemente formulate.
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Dettagli

1993
17 maggio 1993
Libro universitario
184 p.
9788833907765

Voce della critica


recensione di Carpi De Resmini, A., L'Indice 1993, n. 8

Con titolo "Azione a sostegno della salute o confusione?", in un recente editoriale del "Journal of the Royal Society of Medicine" (vol. 86, 1993, pp. 251-52) Spencer commentava l'iniziativa svolta in un ospedale australiano sede di insegnamento durante la settimana della National Heart Foundation. Ai visitatori di una mostra volta a promuovere la prevenzione della patologia cardiovascolare veniva offerta la possibilità di sottoporsi gratuitamente al dosaggio dei livelli ematici di colesterolo eseguito su una goccia di sangue prelevata dal dito e analizzata in un'apparecchiatura capace di dare una risposta pressoché istantanea. Nell'elevata affluenza dei probandi, nel carattere inevitabilmente poco riservato con cui i risultati venivano comunicati e nei conseguenti commenti di malcelata invidia o di sommessa riprovazione con cui venivano di volta in volta accompagnati i risultati, infine nella grave preoccupazione evidente in chi risultava avere livelli elevati di colesterolo, l'editorialista vedeva una nuova forma di comportamento sociale, una specie di nuova moda o, peggio, di un sofisticato culto nel quale la conoscenza del proprio "io biochimico" assumeva un'importanza dominante: in altre parole, un fenomeno sociale non diverso da quello che, negli anni passati, aveva polarizzato l'attenzione su valutazioni del singolo individuo basate su criteri più "morbidi" quali la misura del quoziente di intelligenza o l'identificazione di un 'habitus' comportamentale di tipo A o B (vedi oltre).
In questo accostamento a eventi fioriti intorno a criteri di valutazione dell'individuo ormai ampiamente ridimensionati è implicita la previsione che a un analogo ridimensionamento non potrà sottrarsi il problema colesterolo: una previsione questa in evidente contrasto con l'importanza che al controllo della colesterolemia viene attribuita non solo dalla stampa scientifica e divulgativa, ma anche dai programmi di educazione e di intervento promossi, anche in Italia, da istituzioni diverse, spesso con il dichiarato patrocinio dell'amministrazione sanitaria. Non è dunque ingiustificato chiedersi quali siano le analogie e le differenze fra i fenomeni che l'editoriale ha accostato, identificando, attraverso questa analisi, alcuni dei meccanismi che hanno favorito un così vistoso straripamento del problema colesterolo.
In primo luogo la "durezza" del criterio di valutazione basato sul dosaggio della colesterolemia ne sostiene, agli occhi dei tecnici e dei profani, una ben più apprezzabile e convincente validità nei confronti di una stima del coefficiente di intelligenza o dell'appartenenza a diversi tipi comportamentali basata su "morbidi" criteri di valutazione psicologica. Alla suggestione implicita nella "durezza" del criterio di valutazione si aggiunge d'altra parte l'accessibilità della prova: lo dimostra non solo l'apparecchiatura cui si parla nell'editoriale già citato, ma anche la disponibilità alla vendita nelle farmacie di un sistema per la determinazione semiquantitativa della colesterolemia, un fatto questo commentato in forma esplicitamente obiettiva nel libro di Bobbio, ma preoccupante per le conseguenze che l'introduzione del fai-da-te può avere in un già fiorente processo di medicalizzazione.
Ancor più profonde sono le differenze fra i tipi di intervento che le selezioni operate in base ai diversi criteri potevano adombrare. La stima del quoziente di intelligenza si presta a valutazioni attitudinali (ma non sono mancate le accuse che hanno visto in essa uno strumento di validazione di precostituite discriminazioni sociali o razziali) e si limita comunque a prospettare difficili e problematici interventi di carattere sociale ed educativo nei quali gli strumenti medici hanno un peso del tutto marginale. L'appartenenza di un soggetto alla classe comportamentale A (caratterizzata da forte spinta competitiva, da fretta esagerata, da ostilità cronica) sembra segnalare una maggiore disposizione a determinati tipi di patologia (fra questi l'ipertensione arteriosa e l'infarto cardiaco); ma mentre è del tutto remota e aleatoria la possibilità di modificare un determinato abito comportamentale, gli interventi medici, anche per gli studiosi delle correlazioni fra comportamento e patologia organica, restano quelli che la medicina riserva al manifestarsi delle disfunzioni cardiovascolari.
Ben diversa è la situazione quando un esame che abbiamo visto accessibile dia la categorica risposta dell'esistenza di una ipercolesterolemia: ove si ammetta che questa devianza dell'"io biochimico" possa esser causa del successivo sviluppo della malattia coronarica, è chiara la necessità di correggerla. In questo caso i mezzi di intervento esistono: se una modificazione delle abitudini alimentari o il ricorso a prodotti dietetici specificamente elaborati si rivelano insufficienti, è sempre possibile rivolgersi a farmaci che già a partire dagli anni sessanta sono entrati a far parte dell'armamentario terapeutico. Si crea in questo modo una potente convergenza di interessi. In primo luogo quelli scientifici tendenti a verificare l'ipotesi, nata da ardite estrapolazioni di pur solidi dati ottenuti nell'animale da esperimento, che esista nell'uomo un rapporto di causa-effetto fra ipercolesterolemia e infarto cardiaco; in secondo luogo, interessi di una politica sanitaria che da un lato rifiuta la vera prevenzione laddove essa è efficace ma "incompatibile" e, dall'altro, tenta di nobilitarsi con interventi preventivi di dubbia efficacia, in terzo luogo, interessi economici legati alla creazione di un mercato vasto sia per numero di utenti (negli Stati Uniti d'America si calcola che essi possano raggiungere i 60 milioni) sia per la necessità di prolungare vita natural durante questa terapia. Da tale convergenza di interessi è nata una serie di ricerche impressionanti non solo perché esse hanno coinvolto migliaia di soggetti talora seguiti per alcuni decenni, ma anche perché i risultati che ne sono derivati, più che fornire categorici orientamenti alla pratica medica e alla politica sanitaria, hanno posto l'una e l'altra di fronte a non pochi punti interrogativi.
È questa la conclusione che emerge dalla serrata e sistematica analisi critica cui Bobbio sottopone i capisaldi della costruzione eretta intorno all'ipotesi colesterolo infarto-miocardico. Questa analisi non solo mette in evidenza le discordanze e i limiti dei dati che sostengono sia l'associazione fra ipercolesterolemia e aumentata mortalità da infarto miocardico, sia la possibilità di ridurre quest'ultima attraverso un abbassamento dei livelli ematici di colesterolo, ma anche a prezzo di non trascurabili effetti sfavorevoli (vedi box); essa ci illumina anche sui sottili e non sempre encomiabili artifici che hanno posto l'enfasi sui dati a favore dell'ipotesi colesterolica minimizzando quelli che ne mettevano in dubbio la validità. Discutere di questi artifici porterebbe ad addentrarci sullo scottante terreno che appartiene alla deontologia scientifica oggi più che mai impegnata a distinguere fra frode, scorrettezza ed errore tecnico. Si deve piuttosto insistere su quelle valutazioni che, prescindendo dalla scarsa concordanza dei risultati e facendo riferimento ai soli studi che hanno messo in evidenza una riduzione degli eventi cardiaci mortali, definiscono l'esiguità dei vantaggi che si possono ottenere dalla correzione dell'ipercolesterolemia. Bastano in questo caso poche cifre. In uno studio che ha documentato una delle più notevoli riduzioni degli eventi cardiaci, al termine di 5 anni di osservazione la mortalità per infarto era scesa dal 4,1 per cento dei soggetti non trattati al 2,7 di quelli sottoposti al trattamento ipocolesterolemizzante; in questo caso per risparmiare una vita era stato necessario sottoporre per 5 anni al trattamento 71 soggetti, 70 dei quali sarebbero comunque usciti indenni dallo studio anche in assenza di qualsiasi trattamento preventivo. Negli individui di 20-60 anni un abbassamento sensibile della colesterolemia mantenuto per tutta la vita ne può prolungare la durata per non più di 18 mesi. Il prezzo per ogni anno di vita guadagnato con il trattamento a vita di uomini compresi fra i 30 e i 70 anni oscilla intorno a valori medi di 150 milioni.
Gli interrogativi che emergono da questi dati spiegano i ripensamenti sui programmi ufficiali di intervento elaborati negli Stati Uniti (vedi box); ma è significativo che a questi programmi si fosse giunti grazie alla procedura delle 'Consensus Conferences' che Bobbio sinteticamente descrive, che Skrabanek ha definito 'Nonsensus Consensus' e che Feinstein considera espressione di una 'Consensus syndrome': un comportamento cioè patologico che nelle sue manifestazioni più blande pretende di risolvere problemi scientifici attraverso il voto maggioritario espresso da un gruppo di esperti, ma che nelle sue forme più gravi assume atteggiamenti dogmatici, taccia di eresia qualsiasi critica e vi si oppone adottando gli strumenti accademici che "equivalgono al rogo", ossia negando il sostegno economico agli studi che potrebbero far vacillare il dogma. Dall'analisi condotta da Bobbio appare dunque evidente su quali incerti elementi la medicina preventiva possa contare per preparare programmi di intervento su larga scala. Se, a fronte dei pur modesti risultati favorevoli di alcuni interventi ,si ritiene di poter sorvolare sulle conseguenze sfavorevoli che altri studi hanno messo in evidenza, se l'opporsi a questi interventi sulla base dei loro costi economici elevati se non proibitivi appare cinico, non può certo considerarsi espressione di umana sensibilità voler ignorare le conseguenze della medicalizzazione implicita nell'arruolamento di larghe coorti di individui esenti da manifestazioni di malattia che prevedono esami clinici e di laboratorio ripetuti negli anni. Questa medicalizzazione non può andare disgiunta dall'induzione di uno stato di ansia chiaramenta denunciato dal già citato editoriale del "Journal of the Royal Society of Medicine" e del tutto trascurato, come precisa Bobbio, nei progetti di intervento sulla popolazione ( per un'aggiornata rassegna sui processi e meccanismi della medicalizzazione vedi P. Conrad, "Medicalization and Social Control, in "Annual Review of Sociology",1992).
Alla luce di queste incertezze è giusta la posizione che Bobbio suggerisce al medico pratico: in questi casi al paradigma meccanicistico, in cui il medico impone un programma terapeutico, deve sostituirsi al paradigma probabilistico in cui il medico espone al paziente lo stato delle cose, gli prospetta le varie soluzioni e con lui sceglie quelle che più gli si adattano. A questo paradigma si attiene Bobbio in un libro che, pur rispettando i rigorosi canoni di un' opera scientifica, è in grado di parlare un linguaggio comprensibile anche ai non addetti ai lavori e quindi costituisce un importante contributo a quel dialogo fra tecnici e laici che deve favorire la riappropriazione dei temi della salute da parte di questi ultimi, ma senza scadere nei facili luddismi antiscientifici.

recensione di Dri, P., L'Indice 1993, n. 8

Fa davvero male il colesterolo? A leggere le pagine dei quotidiani e dei settimanali degli ultimi anni si rimane impressionati: il grasso, ormai divenuto più famoso di qualunque altro componente dell'alimentazione, è indicato come il killer del cuore. Si consigliano diete per ridurne i valori, controlli del sangue per conoscerne la concentrazione, mentre compaiono pagine di pubblicità di personaggi famosi che si vantano di avere meno dei fatidici 200 milligrammi di colesterolo per 100 millilitri di sangue, il valore sopra il quale aumenta il rischio di morte per un attacco di cuore. D'altra parte le analisi statistiche parlano chiaro: se si riduce il proprio colesterolo di 2 milligrammi si riduce del 4 per cento il rischio di avere una malattia delle coronarie. Di fronte a questo dato chi potrebbe negare l'utilità di uno screening di massa per individuare i soggetti con ipercolesterolemia e quindi trattarli?
Eppure non tutto è così chiaro e, dopo anni di campagne di informazione condotte per indurre i cittadini ai controlli, l'Associazione dei cardiologi americani ha fatto dietrofront: è inutile setacciare la popolazione e non è sempre vantaggioso ridurre il colesterolo. Dunque il killer è meno efferato di quanto si pensasse. In realtà la nuova posizione dei cardiologi nasce dai risultati di ampi studi, che hanno cambiato il punto di osservazione. È vero infatti che la diminuzione del colesterolo riduce i rischi di morte cardiaca; nessuno però finora si era occupato di considerare il vero "obiettivo" e cioè la mortalità globale.
Tutte le ricerche sembrano convergere su un'unica linea: la mortalità globale rimane invariata, il che significa che a fronte di un minor numero di morti per un attacco di cuore sta un aumento delle morti per altre cause. E così è. Infatti chi ha il colesterolo troppo basso ha un rischio maggiore di morire per un tumore o per cause violente. Proprio quest'ultimo è il dato più sorprendente: in maniera del tutto inattesa, si è infatti scoperto che le morti per suicidio e omicidio sono più frequenti nei gruppi di pazienti trattati con farmaci che riducono il colesterolo.
E gli svantaggi non finiscono qui, perché se nell'uomo l'equazione meno colesterolo meno attacchi di cuore è vera, nella donna non lo è e, anzi, un valore di colesterolo elevato sembra in qualche modo proteggerla dalle morti per causa cerebrale. Come si vede, le prove di colpevolezza raccolte in molti anni dagli accusatori del colesterolo cominciano a vacillare sotto l'onda degli innocentisti.
A questo punto, però, chi ha il colesterolo elevato si sentirà quantomeno titubante: a chi dare ascolto? Infischiarsene e correre il "rischio cuore" o preoccuparsene, riducendolo, correndo però il "rischio di morte violenta e tumori"? La risposta non è facile ma almeno in alcuni casi è chiara. Se si soffre di cuore e il colesterolo è alto, è indispensabile ridurlo, perché il rischio di morte cardiaca è molto elevato. Si hanno infatti 83 possibilità su 100 di morire per questa causa. In caso, invece, di cuore sano si può iniziare a discutere e qualunque soluzione venga scelta nasconderà vantaggi e pecche da valutare caso per caso. Di certo è definitivamente tramontata la speranza di allungare la vita della popolazione setacciando tutti per scovare gli ipercolesterolemici e trattarli: è un costo sociale (in termini economici) e personale (con diete forzate e farmaci che possono avere vari effetti collaterali) che non vale la pena di sostenere a occhi chiusi .

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Conosci l'autore

Marco Bobbio

è primario di Cardiologia all'Ospedale Santa Croce e Carle di Cuneo. Ha lavorato per due anni come ricercatore negli Stati Uniti ed è stato responsabile dei trapianti di cuore a Torino per 15 anni. Ha scritto per Bollati Boringhieri (1993) Leggenda e realtà del colesterolo - Le labili certezze della medicina; con Stefano Cagliano per Donzelli (2005) Rischiare di guarire - Farmaci, sperimentazione, diritti del malato. Per Einaudi ha pubblicato Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza. Medici e industria (2004), Il malato immaginato. I rischi di una medicina senza limiti (2010), tradotto in Brasile, e Troppa medicina. Un uso eccessivo può nuocere alla salute (2017).

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