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Concordo con molte recensioni negative. Libro che promette e non mantiene. La galleria dei prossimi suicidi è semplicemente stucchevole e anche la promessa del personaggio di Redenta Tiria, che arriva troppo tardi, non è solida. Insomma, la sensazione è che Niffoi pensi di essere diventato Garcia Marquez e di poter propinare al pubblico qualunque opera, senza sottoporla al proprio severo giudizio critico.
Un'autentica delusione...uno dei libri peggiori che abbia mai letto!Ci risiamo, ancora una volta una Sardegna finta, artificiale nel linguaggio e nei contenuti.Una Sardegna che non è mai esistita nella realtà, ma corrisponde all'idea che i non sardi hanno di lei.Niffoi ha scritto, in un vano tentativo di imitare Camilleri,esattamente ciò che la casa editrice si aspettava da lui per farne il caso letterario dell'anno.Purtroppo, un libro brutto,scritto male,che promette ma non mantiene.Difficile leggerlo fino alla fine!
Piacevole e avvincente. Interessanti gli esperimenti linguistici. Ha l'evidente difetto di essere un libro scritto a tavolino per dei non sardi: racconta la Sardegna che vorremmo vedere più che la Sardegna reale.
Recensioni
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È una Sardegna arcaica quella che tratteggia Niffoi in La leggenda di Redenta Tiria . Meglio, una Barbagia primitiva e feroce, anche se il romanzo è ambientato nella seconda metà del Novecento. Siamo ad Abacrasta, terra di pastori, povertà e violenza, funestata da tempo immemorabile da una sorta di maledizione che colpisce i suoi abitanti costringendoli, presto o tardi, tutti quanti a uccidersi. È una "Voce" a intimar loro di togliersi la vita, e quando chiama non c'è modo di opporvisi. Ci riuscirà solo Redenta Tiria, "una femmina cieca" giunta in paese da chissà dove, mettendo fine all'epidemia di suicidi. A narrare questa leggenda fiabesca è un ex "ufficiale dello Stato civile" di Abacrasta, scandendola in due parti - prima e dopo l'arrivo di Redenta - che ci narrano le disavventure sia di chi ha ceduto alla tentazione di levar la mano su di sé, sia di chi è stato salvato dal provvidenziale intervento di un deus ex machina davvero numinoso ("Sono la figlia del sole", dice di sé la Tiria).
Così il romanzo appare piuttosto una serie di racconti, aventi ognuno per protagonista questo o quell'abitante di Abacrasta, legati tra loro dal fil rouge della "Voce" assassina. Si tratta di personaggi rusticani - pecorai per lo più - i cui ritratti vengono incisi da Niffoi con una scrittura energica, sapida ed espressionistica, tesa a evocare un claustrofobico piccolo mondo pastorale condannato dalla coazione a ribadire costumanze e agiti tanto tradizionali quanto efferati, come le faide, l'abigeato, l'omicidio per vendetta o onore. C'è un aroma da oralità fiabesca in questa prosa dalle tinte fantasmatiche, ambientata in una Sardegna aurorale/brutale. Favoloso il bestiario: uccelli con il becco di bronzo, tori con corna di metallo. Medievale la religiosità superstiziosa della gente di Abacrasta che crede alle "fatture e alla predestinazione". Durissima la vita dei pastori; come aspro e a tratti quasi surreale il paesaggio. Calate in un'aura di magia le vicende dei personaggi più riusciti - dai suggestivi nomi vernacolari - quali il servo pastore Candidu Vargia, il "sordo, cieco e muto" Chilleddu Malevadau, o la prostituta per necessità Serafina Vuddi Vuddi.
Ogni capitolo, si accennava, è una storia conchiusa e a sé stante pur avendo sempre a che fare con la vocazione al suicidio. Ogni racconto illustra una vicenda singolare e Niffoi inventa diciannove avventure/sventure dei suoi protagonisti così ben congegnate, intriganti e a volte persino spassose, che vien voglia di scoprire in fretta come terminano, pur nella consapevolezza che il finale (solo quello, però) è sempre il medesimo, puntualmente con un suicidio nella prima parte del libro o con la rinuncia a esso, nella seconda. L'atmosfera psicologica, invece, oscilla sempre tra un ironico disincanto e uno scenario magico in cui irrompono voci oltremondane a suggerire o sconsigliare la scorciatoia per "il regno dei morti".
Niffoi racconta; la fantasia del fabulatore si scatena man mano che le pagine procedono e la sua, di primo acchito, pare una narrazione orale riversata in prosa, tanto la scrittura fila via liscia; ma una descrizione troppo accurata, una metafora troppo preziosa ci rivelano che si tratta di un registro stilistico-compositivo controllatissimo, dove ogni parola è ben ponderata. Unico neo: la storia di Benignu Motoretta, insolitamente narrata in prima persona dal protagonista ma poco schietta, in quanto il lessico colto utilizzato non può esser certo quello di un contadino.
Francesco Roat
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