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Il lavoro dell'attore sul personaggio - Konstantin S. Stanislavskij - copertina
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Il lavoro dell'attore sul personaggio
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Descrizione


"Qui si va ben lontani da carismatiche 'teorie'! Qui si parla di lavoro quotidiano, di faticose scoperte giornaliere, di riflessioni strettamente collegate con la prassi del palcoscenico!" (Dalla Prefazione di Giorgio Strehler). Attore, regista e teorico dell'espressione scenica, Konstantin S. Stanislavskij (Mosca 1863-1938) fu costretto, durante la Rivoluzione d'Ottobre, a lasciare la Russia per una tournée in America dal 1922 al 1924. In realtà fu proprio questa fortunatissima tournée a far conoscere al mondo il suo 'metodo'.
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Dettagli

21
2008
3 settembre 1993
XXIV-324 p., ill. , Brossura
9788842042761

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Stanislavskij si conferma un maestro. Libro necessario per chi vuole intraprendere una vita artistica in campo teatrale.

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Voce della critica


(recensione pubblicata per l'edizione del 1988)
recensione di Taviani, F., L'Indice 1989, n. 2

Stanislavskij progettò qualcosa di abnorme per le nostre tradizioni culturali: un ampio ciclo di opere dedicate alla formazione dell'attore, tema che era oggetto, tutt'al più, di trattatelli e manualetti pratici e pareva indegno d'assorbire un'intera vita di ricerche. Nella sua visione "eccessiva", attore significava esperienza dell'azione, analisi e ricomposizione dei processi che caratterizzano la vita personale e sociale. Voleva dire una dilatazione della coscienza dell'artista prima ancora che un'arte per lo spettacolo. Preferiva l'attore freddo ma analiticamente veritiero a quello ardente e passionale operante all'ingrosso. Scopriva che la condizione base per il realizzarsi della vita scenica non era il sentimento, il discernimento intellettuale o il trasporto emotivo, ma la precisione d'una partitura di cui l'attore doveva conoscere e saper ripercorrere tutti i dettagli, fossero essi di tipo fisico o mentale. C'è da chiedersi come tutto questo abbia potuto esser banalizzato e confuso nella semplicistica e diffusa immagine d'un metodo per l`"immedesimazione" nel personaggio, e come mai Stanislavskij possa esser identificato con la sola stagione del realismo. Certo ebbe il suo stile,sia come regista che coane attore, ma oltre a ciò fu l'iniziatore della scienza del teatro in occidente.
Scienza del teatro è quasi come dire etica del teatro. Non solo: un bel giorno ci si accorgerà (forse) che ci sono libri di teatro che superano le frontiere della scena e offrono buoni contributi in campi lontani. I libri di Stanislavskij sulla formazione dell'attore appartengono a questa categoria; pur non esulando esplicitamente dal proprio territorio, essi esplorano infatti una regione quasi disabitata del sapere: il funzionante della "mente" che presiede ai processi di composizione. Riguardano non l'opera, ma il lavoro per l'opera. Sono i territori tradizionalmente presidiati dal talento personale, dall'istinto, dall'ispirazione, ma possono essere indagati scientificamente purché si intenda il senso d'una scienza empirica e operativa, che fa ricerca sul campo, che non si coagula in schemi e paradigmi, che anche quando sembra spiegare e definire il perché dell'esperienza in realtà si limita ad indicare le vie multiformi per raggiungerla.
Stanislavskij portò a termine due soltanto delle sette opere progettate per il ciclo sull'attore e sulla composizione teatrale: il volume introduttivo e autobiografico "La mia vita nell'arte" e l'opera in due tomi "Il lavoro dell'attore su se stesso". Dell'opera seguente "Il lavoro dell'attore su se stesso", rimangono nuclei diversi, scritti in un arco di tempo che va dal 1916 al 1937. Nel'57, questi nuclei ancora non amalgamati vennero raccolti, introdotti, annotati e pubblicati a cura di G. Kristi e V. Prokof'ev come questo volume della "Raccolta di opere di Stanislavskij in otto volumi" edita a Mosca fra il 1954 ed il '61 (ne esiste una versione integrale in tedesco, pubblicata nella D.D.R.). Il libro edito da Laterza riproduce la scelta (ma non gli apparati storico-critici) di Kristi e Prokof'ev. Nella pagina che apre la sua introduzione, Fausto Malcovati, dà notizia d'una nuova edizione sovietica delle opere di Stanislavskij, che sarà pronta "nei prossimi anni" e che dovrebbe ripristinare alcuni brani "manomessi in parte dai curatori della prima edizione, troppo ligi ai plumbei schemi imposti dal periodo immediatamente post-staliniano". Ma poiché non ci dice di che tipo di manomissioni si tratti, e quale sia, approssimativamente, la loro consistenza, ci lascia con i dubbi. In genere, mancano troppe notizie in quest'edizione italiana.
Forse è esageratamente ossequiente alla superstizione secondo cui un libro è tanto più leggibile anche da un non specialista quanto più è impreciso. Stanislavskij si inventò una terminologia e quando lo si legge in traduzione si sente la mancanza di qualche indicazione sul campo semantico delle parole-chiave originali. Così, data l'indole del volume (e ho finito con le lamentele) sarebbe importante qualche cenno all'ultimo esperimento di Stanislavskij condotto fino a poco prima della morte (avvenuta mezzo secolo fa, nel '38), quando lavorò sul "Tartufo" di Molière ponendosi in una situazione di ricerca ancora una volta nuova (ne riferisce V.O. Toporkov in un libro edito in Unione Sovietica nel 1950 e tradotto nel 1979 per l'ed. Theatre Arts Books di New York: "Stanislavskij in Rehearsals).
Malgrado la speditezza un po' eccessiva dell'edizione, "Il lavoro dell'attore sul personaggio" curato da Malcovati resta un libro prezioso, per certi versi ancor più prezioso de "Il lavoro dell'attore su se stesso". Ha ragione il curatore quando dice (p. XII) che questi materiali per un libro ancora da fare, proprio perché non rifusi da Stanislavskij in un'opera unitaria, costituiscono "un emozionante cammino attraverso il suo metodo". Viene allora da pensare che "metodo", a sua volta, etimologicamente vuol dire "cammino che va oltre". Stanislavskij stesso pensò il ciclo sulla formazione dell'attore come un cammino attraverso un "metodo" nel senso di cammino alla frontiera: l'indagine scientifica sul teatro si esprime, infatti, attraverso la biografia dei teatranti. Anche questo era andare controcorrente: nell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento, se gli artisti di teatro scrivevano tenevano rigidamente separate le pagine autobiografiche da quelle sul mestiere.
Aperto dall'autobiografia dell'autore, il ciclo stanislavskijano prosegue con opere teoriche in forma di romanzo-diario. I primi materiali de "Il lavoro dell'attore sul personaggio", dedicati all'interpretazione di "Che disgrazia l'ingegno" di Griboedov, scritti fra il '16 e il '20, sono ancora in forma saggistica; gli altri, sull'"Otello" e su "L'ispettore generale", fra il '30 e il 37, hanno già la forma diaristico-romanzesca de "Il lavoro dell'attore su se stesso": Stanislavskij si sdoppia nella figura d'un allievo che ripiomba continuamente nella constatazione della propria impotenza e in quella del maestro Torcov, carico d'esperienza, ma incapace di fermarsi a ciò che già conosce. Uno scritto del '23, pubblicato in appendice, si intitola "Storia d'una messinscena". Romanzo pedagogico e svela il pressappochismo della normale produzione teatrale con un impianto narrativo non molto diverso da quello con cui Bulgakov, una quindicina d'anni più tardi prenderà invece in giro il rigore di Stanislavkij con il "Romano teatrale".
Se la si legge con poca perspicacia, alla luce di un'aneddotica effervescente, l'opera di Stanislavskij può persino apparire un "guazzabuglio" (Luciano Lucignani, in "la Repubblica", 5/1/'89): d'altra parte, questa banalizzazione è solo la faccia superficiale di un'incomprensione più profonda, che identifica il contributo di Stanislavskij con il complesso delle sue "ricette", con le regole e gli esercizi che continuamente creava e disfaceva. Il metodo vivo di Stanislavskij si trasforma così, ad opera di cattivi allievi, troppo devoti e fedeli, in un metodismo teatrale. Il mutare dei punti di partenza (il "metodo delle azioni fisiche" che soppianta i punti di partenza basati sull'interiorità), il succedersi delle diverse "fasi" e dei diversi esperimenti, l'oscillazione terminologica e il mutare delle metafore, mi pare esprimano sotto la loro incessante varietà un atteggiamento empirico fondato su alcuni pochi principi solidi e di validità obiettiva che forse potrebbero essere ricondotti ai seguenti: necessità d'una partitura; costruzione d'un procedimento che non parta dalle domande sul "senso" (dell'opera, del personaggio), ma dai dettagli, lasciando; che il "senso" si costruisca da sé o emerga come una scoperta dal lavoro; capacità dell'attore ad intessere reti di motivazioni e significati che (come ha spiegato Franco Ruffini) non hanno il compito d'essere decodificati dagli spettatori, ma servono a dargli organicità e credibilità sulla scena.


recensione di Vicentini, C., L'Indice 1989, n. 2

Ma l'insegnamento di Stanislavskij è ancora attuale e realmente efficace? Sembrerebbe di sì. L'insospettabile Strehler, nella sua entusiastica prefazione al "Lavoro dell'attore sul personaggio", proclama di provare per il regista russo un autentico "amore", che "non è amore da poco". E diversi mostri sacri della recitazione, attivi oggi sulle scene, continuano a vantare la loto provenienza da scuole esplicitamente devote al metodo stanislavskiano. Eppure non è un mistero che Stanislavskij, come regista, raggiunse i suoi risultati rimasti esemplari misurandosi con la drammaturgia caratteristica della fine dell'ottocento e del primissimo novecento (soprattutto Cechov), e che già intorno al 1905, confrontandosi con i testi delle nuove avanguardie artistiche, incontrò gravi difficoltà da cui non riuscì mai ad emergere con piena soddisfazione, mentre nei decenni successivi il suo profondo interesse per la sperimentazione registica più avanzata restò sempre segnato da un'insuperabile diffidenza.
È un fatto che l'impostazione stessa della riflessione stanislavskiana affonda le sue radici nella cultura teatrale dell'ottocento, e in particolare nel dibattito che per tutto il secolo contrappose gli "emozionalisti" agli "antiemozionalisti". Per i primi, che avevano tra i propri esponenti attori celeberrimi come Henry Irving, era necessario che l'interprete provasse effettivamente, mentre recitava, le emozioni interiori del personaggio, che doveva cogliere ed evocare in sé affidandosi soprattutto all'"istinto" o all"'intuizione". Per i secondi, invece, la recitazione doveva essere eseguita a freddo, ricorrendo a una tecnica consapevole, razionale e lungamente studiata. La partecipazione emotiva poteva se mai essere utilizzata solo nella fase di preparazione ma poi, sulla scena, l'attore doveva scrupolosamente evitarla per non turbare il lucido controllo tecnico della sua prestazione.
Proprio sulla confluenza di queste due posizioni Stanislavskij costruisce le sue argomentazioni teoriche. Il vantaggio della recitazione antiemozionalista (che egli chiama "rappresentativa" individuandone il campione in Coquelin, il celebre creatore del personaggio di Cyrano de Bergerac) è quello di sottrarre il lavoro dell'attore all'inaffidabilità dell'ispirazione e dell'intuizione immediata, aprendo così la via all'elaborazione di una tecnica che può essere insegnata, trasmessa e perfezionata. Il suo limite è l'incapacità di coinvolgere autenticamente lo spettatore che resta "più meravigliato che commosso". Al contrario, la recitazione emozionalista (o "d'istinto") colpisce il pubblico nella profondità della sua anima e rende il personaggio, sulla scena, in modo assolutamente autentico e convincente. Ma si realizza appunto e solo in particolari momenti di grazia, quando nasce l'ispirazione, e l'attore non possiede alcuno strumento per controllarla e padroneggiarla.
Il compito che si propone Stanislavskij è allora chiaro: giungere a una forma di recitazione che associ alla profondità e all'efficacia della recitazione d'istinto, l'affidabilità e il controllo propri della recitazione rappresentativa. È un obiettivo che può essere però raggiunto solo in parte perché, come Stanislavskij non si stanca di ripetere, i processi che stimolano l'ispirazione dell'attore consentendogli di evocare spontaneamente in sé ed esprimere sulla scena contenuti spirituali adeguati al personaggio, sfuggono alla coscienza. Si tratta perciò di elaborare tecniche ed esercizi (il "metodo", appunto,di Stanislavskij) che favoriscano la nascita di questo stato di grazia, innescando la reazione di meccanismi psicologici segreti, che restano sepolti nel mistero dell'inconscio.
Alla base di tutte le tecniche e gli esercizi via via studiati e sperimentati da Stanislavskij sta un'operazione fondamentale. L'attore, utilizzando le risorse della propria intelligenza, della propria immaginazione e del proprio patrimonio emotivo deve individuare e raffigurarsi nel modo più preciso e vivace possibile le circostanze particolari in cui il personaggio della commedia si trova ad agire (luogo, tempo, situazione, eventi, rapporti con gli altri personaggi, caratteristiche della loro personalità, esperienze passate, aspirazioni, desideri, e via dicendo). Queste circostanze, ovviamente, sono in buona parte indicate dal testo della commedia, ma ciò non è sufficiente. L'attore deve procedere oltre, e definire, in modo assolutamente rigoroso e conseguente i minimi dettagli impliciti negli elementi della vicenda narrata dall'autore (ad esempio il "passato" dei personaggi, cosa fanno quando non sono in scena, i particolari del loro aspetto e del loro abito, l'arredamento, l'ambiente). Poi, proprio come fa il bambino quando si immerge nei suoi giochi, l'attore si cala in queste circostanze, chiedendosi che cosa farebbe (e non cosa proverebbe o sentirebbe) se lui personalmente, si trovasse nella situazione del personaggio, cominciando ad immaginare la propria azione e quindi ad agire.
A questo punto, secondo Stanislavskij, si innesca un doppio processo. L'esattezza e la precisione delle azioni eseguite e la loro assoluta coerenza con la situazione immaginata solleciteranno l'emergere nell'attore dei contenuti interiori appropriati, e questi, a loro volta, produrranno spontaneamente le espressioni e i gesti fisici adeguati. E il personaggio sarà compiutamente realizzato sulla scena.
Tutto il "metodo" stanislavskiano, nelle sue infinite modifiche e varianti consiste così nella messa a punto di una miriade di tecniche ed esercizi utili per giungere ad eseguire nel modo più completo e perfetto questa operazione. In un simile processo, però, il testo dell'opera assume una funzione particolarissima. Non costituisce innanzi tutto - come apparirebbe a prima vista - la serie di battute dette dai personaggi, che gli attori devono a loro volta pronunciare, ma è piuttosto un "sistema di circostanze e situazioni" che gli attori individuano e sviluppano, per poi calarsi in essi ed agire. Sarebbe perciò pericolosissimo iniziare le prove di una commedia recitando le battute del testo, che non possono essere un punto di partenza, ma solo d'arrivo.
L'attore immergendosi nelle circostanze indicate dall'opera e cominciando ad immaginare la propria azione, e poi ad agire spontaneamente, inizierà invece prima a recitare a soggetto, e quindi perfezionerà a poco a poco i suoi movimenti e le sue espressioni, fino a "ritrovare", se l'operazione è stata condotta felicemente, le parole messe dall'autore in bocca al personaggio, che gli affioreranno naturalmente sulle labbra. Il testo dell'opera svolge così due funzioni diverse: quella iniziale di testo-canovaccio che definisce circostanze e situazioni, e quella finale di testo-battuta, che fissa l'espressione verbale d'arrivo dell'attore. E come punto d'arrivo resta quanto meno problematico, perché nulla garantisce che l'attore ritrovi effettivamente le parole dell'autore, o addirittura non ne trovi, da sé, di migliori.
Si aprono così possibilità inedite di lavoro: tra cui quella di cominciare a provare una commedia senza averla ancora letta (ma conoscendone soltanto la storia), e addirittura di "recitare un'opera mai scritta". Spiega infatti nel "Lavoro dell'attore su se stesso" l'insegnante agli allievi:"Facciamo la prova. Ho inventato un'opera, vi racconterò la trama per episodi e voi la reciterete. Mi annoterò le trovate migliori delle vostre improvvisazioni. Così unendo i nostri sforzi scriveremo e reciteremo un'opera che non è ancora stata scritta".
In questa maniera l'insegnamento di Stanislavskij viene a coincidere in forma davvero sorprendente con alcune delle più avanzate sperimentazioni teatrali novecentesche, liquidando nello stesso tempo in modo irreversibile la posizione convenzionale del regista come interprete, mediatore e garante della rappresentazione scenica di un testo. Resta però, proprio nel cuore dell'impostazione stanislavskiana, un preciso limite che le chiude nell'ambito della cultura teatrale tardo ottocentesca. Ed è la convinzione che l'attore, calandosi in un sistema di circostanze minuziosamente individuate e iniziando spontaneamente ad agire come lui stesso agirebbe in quella particolare situazione, possa rendere adeguatamente il personaggio. Perché questo accada è infatti necessario non solo presupporre, come Stanislavskij fa, una dinamica psicologica naturale, comune ad ogni essere umano, ma anche rinunciare a tutte quelle opere teatrali che non offrono personaggi rigorosamente costruiti secondo il modello dell'uomo reale. Si comprende allora perché Stanislavskij potesse trovarsi perfettamente a suo agio all'interno della drammaturgia d'impronta naturalista (o comunque riconducibile a parametri realistici), scontrandosi invece con mille difficoltà nel maneggio di tutti gli altri generi di testi, e come, di conseguenza, il suo insegnamento possa essere utilizzato dalla sperimentazione novecentesca solo in modo estremamente problematico e parziale, e comunque slegato :dall'impostazione di fondo che gli conferiva una precisa coerenza e unitarietà.

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