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Poteva essere uno scritto ben fatto, di quelli da cui tiriamo fuori notizie e documentazione per collocarlo nel grande puzzle dei libri utili. Invece è venuto fuori qualcosa di più: un regalo per gli anziani e i giovani che trafficano con la sociologia, ma anche per quanti sono curiosi di storia torinese e un po' stufi dei toni ampollosi e vagamente necrofili con i quali ci viene normalmente condita.
È la vicenda di un giovanotto che emerge da studi umanistico filosofici e si accosta a una disciplina a quel tempo osteggiata dall'accademia prevalente e dal marxismo dottrinario. Anche se personaggi lungimiranti, come a Torino Abbagnano, facilitano il traghetto.
Un caso tipico di vocazione, dal momento che negli anni cinquanta mancavano percorsi ben disegnati per diventare sociologi. A Milano, a Bologna, all'Olivetti, a Roma, "maestri" poco più anziani, da Ferrarotti ad Ardigò a Pagani a Pizzorno, da Alberoni a De Rita a Gallino animavano piccole scuole e cerchie di giovani ai margini dell'università o altrove. Ma erano fratelli maggiori più che padri (meglio così!) e non garantivano facili accessi.
Il percorso di Bonazzi è ancora più originale della media e lo porta dall'"Avanti" alla Camera del lavoro, all'Ires Piemonte, alla scuola di amministrazione d'azienda di via Ventimiglia, a metà tra passione e tentativi di sbarcare il lunario. È qui che incontriamo un'immagine umana e poco retorica della sinistra torinese, con il buon Cominotti che dà una mano, i sindacalisti incerti su come arrivare alla fine del mese, le "geniali" bizzarrie di Lombardini, la frequentazione di Guido Bodrato.
Pian piano Bonazzi si avvia sul terreno che è più suo: la ricerca empirica, le inchieste, i primi dilemmi metodologici. Memorabile l'avventura salernitana con Arnaldo Bagnasco (a proposito quand'è che Arnaldo ci racconterà la sua iniziazione?). Tra un lavoro e un lavoretto il giovane mette su una famiglia e riesce addirittura a sbarcare nel Michigan vestito da autentico gaffeur. Riesce per un pelo a entrare nell'università e si chiarisce quella che sarà la sua specialità, il sociologo delle organizzazioni.
I giovani lettori scopriranno che a quel tempo occorreva anzitutto essere sociologi generalisti, affrontare la grande produzione degli americani, senza dimenticare i maestri tedeschi con incursioni obbligate nell'economica, nell'antropologia e nella storia nonché nella scienza politica. Una fatica, ma anche un piacere che oggi è spesso negato a quanti debbono precocemente specializzarsi.
Il cuore della vocazione bonazziana è la ricerca sul campo: ha scritto opere teoriche consistenti e di grande tenuta formativa, come la rassegna delle teorie dell'organizzazione, ma ci sorprende al massimo quando indaga un luogo e un fenomeno. Dagli operai anomici della "fabbrica di motori" ai cassa integrati, agli sconfitti dei trentacinque giorni Fiat (teatro di un pittoresco litigio con Bertinotti), al caso Singapore, ai cinquantenni di Mirafiori che stranamente fanno meglio dei giovani diplomati di Melfi e tanti altri.
Riesce a trasmetterci davvero la positiva nevrosi del ricercatore che quando si fa le domande non sa ancora quali saranno le risposte. Un'avventura che deve essere rigorosa, ma resta sempre un'avventura.
Infine, nell'intarsio di questo libro serpeggia una venatura più profonda: una vicenda familiare di tale autenticità che non può essere accennata in recensione.
Bruno Manghi
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