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Kubrick e il cinema come arte del visibile - Sandro Bernardi - copertina
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Kubrick e il cinema come arte del visibile - Sandro Bernardi - copertina

Dettagli

2000
1 marzo 2000
224 p., ill. , Brossura
9788880331728

Voce della critica



Bernardi, Sandro, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Il Castoro , 2000
Chion, Michel, Un'odissea del cinema. Il "2001" di Kubrick, Lindau, 2000
recensioni di Tomasi, D. L'Indice del 2000, n. 11

Nel fiorire di iniziative editoriali che hanno fatto seguito alla scomparsa di Stanley Kubrick, salutiamo con piacere la ristampa, ma in una nuova edizione aggiornata e accresciuta, del libro che Sandro Bernardi, che insegna storia del cinema all'Università di Firenze, aveva dato alle stampe nel 1990. Kubrick e il cinema come arte del visibile si impose, sin da quell'anno, come uno dei tentativi più ricchi e significativi di leggere l'opera del regista nell'ambito di una serie di vasti e complessi riferimenti culturali - dalla letteratura all'estetica, dalla semiotica alle arti visive - senza per questo venire meno alla prima necessità di ogni libro che si occupi di cinema: ovvero il saper parlare di cinema, penetrandone la dimensione espressiva, interrogandosi sul senso delle sue scelte formali, valutando l'importanza di un movimento di macchina o di un raccordo di sguardo.
Per quanto il libro affronti l'opera di Kubrick nella sua complessità - incluso Eyes Wide Shut -, esso tuttavia sceglie di concentrarsi in particolare su un film, Barry Lyndon, visto come momento d'accesso a una prospettiva più ampia, che non è solo quella rappresentata dall'opera di Kubrick - alla cui generalità si ritorna alla fine del libro - ma anche da una certa tendenza del cinema stesso, quella per cui non si mostrano immagini per raccontare storie, bensì si raccontano storie per mostrare immagini. Il movimento messo a nudo da Bernardi è quello dello svuotamento della significazione a vantaggio della visibilità, un movimento in cui la storia raccontata si perde, si fa sottile, si riduce a "un particolare nella grande estensione del visibile". Si vedano ad esempio i frequenti zoom indietro di Barry Lyndon, che passano da un particolare (due mani che si stringono, una pistola che viene caricata) a un piano d'insieme di diversi personaggi, a una visione paesaggistica fortemente statica, passaggio attraverso cui si esce letteralmente dal racconto per entrare in un quadro.
La tensione fra immagini e racconto - propria tanto dell'opera di Kubrick che dell'esegesi di Bernardi - trova nella "soggettiva come forma simbolica" un momento privilegiato. Se la soggettiva è un mostrare in prima persona - e quindi un fatto narrativo -, essa è anche la visione di qualcosa - e quindi un fatto di immagini -; a seconda del modo in cui viene usata, essa può privilegiare l'uno o l'altro dei suoi due possibili registri espressivi. In Barry Lyndon, Kubrick accompagna le sue soggettive a zoom che schiacciano lo spazio, "in cui il realismo della messa in scena si perde nell'effetto fotografico forte", dove, ancora una volta, si "termina su un quadro, anziché su un oggetto apparentemente reale, quasi a indicare che l'unico modo per guardare con gli occhi di Barry, personaggio settecentesco, è quello di ricorrere alla pittura del suo tempo come filtro deformante indispensabile".
La centralità del tema della visione non poteva poi non porre la questione dello spettatore, della sua funzione in quanto soggetto estetico, che non solo riceve ed elabora, ma anche "costruisce l'oggetto". Bernardi vede nello spettatore dei film di Kubrick un esempio significativo dello spettatore della modernità, qualcuno che non è semplicemente stabilizzato e definito dal film, ma che, al contrario, "trasforma il film guardandolo" e "si trasforma guardando il film".
Più convenzionale nella sua struttura, ma non per questo meno interessante, è il libro che Chion dedica a 2001: Odissea nello spazio. Eletto da una giuria di critici internazionale uno dei dieci grandi film della storia del cinema, 2001 è stato a lungo considerato un'opera ermetica, fitta di simbolismi, un puzzle intellettuale di difficile decifrazione. Il film, invece, è forse uno dei più lineari e per certi versi didascalici fra quelli realizzati dal regista americano. Il che, tuttavia, non vuol dire che esso possa essere ridotto ad alcune semplici chiavi di lettura. Chion ne ripercorre con precisione e intelligenza il contesto culturale e la lunga genesi, si sofferma sulla sua particolare costruzione narrativa, ne analizza le molteplici modalità di messa in scena, si attarda sulle sue possibili interpretazioni - del "misterioso" monolito ne offre addirittura sei... e tutte in grado di tenere -, ne sottolinea il carattere di "film assoluto" per arrivare a riconsiderarne il valore mitico e umano. Pur presentandosi come un libro che cerca di capire quel che è 2001, piuttosto che esibire quel che io (Chion) e solo io sono in grado di scorgervi, Un'odissea nel cinema è assai ricco di notazioni personali e analisi originali. Si vedano, in particolare, quelle relative alla colonna sonora del film, alle sue musiche, all'uso rarefatto dei dialoghi, alla funzione dei rumori, al peso che in esso vi assumono i momenti di silenzio. Del resto Chion è già ampiamente conosciuto anche in Italia per i suoi studi sul cinema come fatto audiovisivo - e quindi non solamente visivo - e non ci stupisce così che il suo libro insista particolarmente sul rapporto fra il detto e il mostrato, vedendo in 2001 un esempio di cinema decentrato, di un cinema "in cui sentiamo che il mondo non si riduce alla funzione di incarnare un dialogo".

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