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Italo Calvino. Il castello della scrittura - Giorgio Bertone - copertina
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Italo Calvino. Il castello della scrittura - Giorgio Bertone - copertina

Descrizione


"Il libro è quello dell'intellettuale e della sua visione del mondo. L'idea è nata al convegno di Sanremo nell'86, subito dopo la morte di Calvino, il percorso si snoda attraverso ciò che Calvino stesso ha scritto, non solo sotto forma di libri, romanzi, ma anche articoli, lettere, saggi, pezzi inediti". Un lungo viaggio attraverso la restituzione della figura di un narratore nella sua dimensione di intellettuale, da quando scriveva per "l'Unità" ai carteggi dei primi anni come redattore dell'Einaudi; dall'accostamento con Primo Levi e Natalia Ginzburg, due modi di vedere il mondo mediante un raffronto di scritture, a quello con Cesare Pavese, al rapporto con Pasolini. Il libro vuole fornire una nuova chiave di lettura di Calvino.
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Dettagli

1994
1 gennaio 1997
XI-331 p.
9788806133399

Voce della critica


recensione di Beccaria, G.L., L'Indice 1995, n. 3

Il libro di Giorgio Bertone si apre con un capitolo straordinariamente ricco, "Le radici del "Midollo"", dove si indagano i primi scritti di Calvino a cavallo degli anni cinquanta, quelli che precedono la stagione anteriore al "Midollo" (1955) e che costituiscono le radici della sua formazione intellettuale e della sua attività di scrittore. Nell'oceano degli scritti calviniani sparsi in quotidiani e riviste Bertone rintraccia gli incunaboli di alcune idee portanti: anzitutto, l'idea dello scrittore come colui che progetta e inventa letteratura per costruire una nuova società ("sono uno che lavora [oltre che ai propri libri] a far sì che la cultura del suo tempo abbia un volto piuttosto che un altro"); e poi, l'elaborazione di una serie di giudizi e tassonomie che con varia sfaccettatura e articolazione vanno a colpire il decadentismo identificato con l'irrazionalismo e lo psicologismo ("Il primitivismo, il barbarismo, il culto del selvaggio e dell'inconscio sono nella cultura d'occidente un 'male del secolo' tra i più vistosi e difficili da scansare", 1951, a proposito di Pavese); infine il distacco dal mito crociano dell'individualità storica creatrice e l'idea che l'artista deve innanzitutto impossessarsi di mezzi tecnici, in specie delle tecniche del momento in cui lavora. Nei primi scritti notevoli anche le riflessioni sparse sulla necessità di costruirsi una lingua personale, tutta di parole "dure e trattenute", "dura e nuda, fatta di vocaboli chiusi e di ruvidi nessi sintattici".
Altra angolatura nuova, originale, del libro di Bertone: provare a ridisegnare Calvino dentro una galleria di figure con le quali in tempi diversi si era confrontato. Qua e là compare Pasolini, ma capitoli appositi sono riservati a Pavese, Primo Levi, Natalia Ginzburg. Bertone non vuole ricostruire due biografie parallele, n‚ due rilevanti lavori intellettuali, ma intende ripensare un'opera, quella di Calvino, facendola reagire con il personaggio di riferimento. Gli avvicinamenti non servono soltanto per misurare influssi: per esempio, nel capitolo su Calvino e Pavese, Bertone non indaga il debito con un maestro, bensì la capacita di Calvino di ritagliare un suo spazio di fronte a Pavese, magari di rintracciare il se stesso in Pavese (l"'umanità razionale" di Pavese, la sua "classica chiarezza che tocca il fuoco e non brucia"; il modo di raccontare senza creare personaggi; il paesaggio così poco ammantato di colori localistici, tutto astratto ed essenziale, l'aver saputo innalzare a luogo di simboli universali una terra letterariamente desertica, culturalmente marginale, geograficamente periferica, mai provincia, ma paese e mondo insieme; l'etica lavorativa di Pavese, "l'elemento fondamentale della sua vita, la sua vera ancora di salvezza: il lavoro, il suo straordinario testardo divorante amore per il lavoro"; Pavese poeta non "per natura n‚ per grazia" ma per consunzione in laboriose e ostinate conquiste). Altrettanto felice il capitolo su Calvino e Primo Levi, dove si segnalano luoghi e tempi e temi d'incontro tra i due tutt'altro che episodici e fortuiti per due "naturalisti" come loro nel guardare al mondo umano dalla stessa specola con cui si osserva e indaga la natura. E ci sono i contatti per l'intrigo ludico-serio di difficoltà scientifiche, linguistiche e metriche sollevate da una traduzione calviniana di Queneau; e il loro incontrarsi sull'idea centrale di una lingua per la prosa chiara e comunicativa ma non abbassata alla grigia e sbiadita medietà; e poi, la simulazione di "parlato" in Queneau che incanta Levi, ed è problema così caro a Calvino. Terzo quadro del trittico, Calvino e Natalia Ginzburg: l'affinità elettiva di Calvino per una scrittrice attestata con laconica semplicità sulla sponda dell'oralità e che con uno strettissimo numero di mezzi espressivi cerca di esprimere il complesso, sa "far passare il mare in un imbuto"; l'interesse per quel modo caro alla Ginzburg di esprimere col mondo un rapporto diretto, mai psicologizzato, o liricizzato, il costruire le psicologie attraverso il comportamento, e il lirismo nel taglio e nella cadenza delle sue storie. Totale ancora l'adesione di Calvino a una Ginzburg capace di abbassare il tono senza scadere nel mimetismo realistico, capace di tenersi lontana dalla più grave delle pestilenze della narrativa contemporanea italiana, la registrazione "da magnetofono" dei discorsi banali della gente, un fare il verso al parlato, ai modi di dire della conversazione usuale. Pochi come Natalia hanno saputo narrare l'oralità; a lei, scrive Calvino, "del parlare della gente interessa solo [la] musica grigia, monotona, dolorosa".
Un capitolo di grande finezza critica è il terzo, in cui Bertone rilegge "Il castello dei destini incrociati" a partire ancora dalla figura della "reversibilità", già rilevata da Mengaldo, soffermandosi sull'ipervisualismo calviniano, il mondo ricondotto a rappresentabilità visiva, e ciò porta Calvino a penetrare in modo originalissimo il versante del rapporto oralità-scrittura: nel "Castello della scrittura" assistiamo alla repressione dell'oralità, determinata preliminarmente dalla chiusura delle bocche dei cavalieri, e questo "mutismo" in qualche modo si lega al Calvino che ha sempre esaltato la laconicità, che si è soffermato sull"'enorme difficoltà a esprimer[si]" (cito da una memorabile intervista a Camon), sul "disgusto fondamentale per la parola, per questa roba che esce dalla bocca, informe, molle molle", e l'ha portato a esperimentare strategie scrittorie sempre calcolate e nuove ("Scrivere ha senso solo partendo da questa diffidenza per la parola, da questo disgusto"). Nel "Castello dei destini incrociati", scrive Bertone, "alla gesticolazione e ginnastica facciale dei singoli cavalieri corrisponde una narratività fortemente mimetica della fisicità orale nelle congetture scritte (anche lui è muto) del cavaliere-interprete-narratore". Insomma, un libro che contiene tutta una serie di chiavi di lettura, di suggerimenti, di indicazioni, di luci, di stimoli, insieme a una grande ricchezza di informazione, di erudizione davvero formidabile annegata in minutissime note, mentre il testo scorre leggero, frizzante, per felice scrittura.

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