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Descrizione


Il rapporto tra Islam e Occidente è al centro di questo saggio di Khaled Fouad Allam. Quali sono i margini per l'affermazione di una mentalità laica negli Stati musulmani? Qual è il rapporto fra religiosità e individualismo, fra tradizione e apertura, negli immigrati musulmani in Europa? In quale modo la globalizzazione influisce sulle dinamiche delle società islamiche, nei paesi d'origine e in quelli d'immigrazione? Sono domande cruciali, intorno alle quali da anni si interrogano gli osservatori più attenti, a partire almeno dalla rivoluzione iraniana, dal caso Rushdie e dall'inizio dei massacri in Algeria.
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Dettagli

2002
8 maggio 2002
202 p.
9788817869850

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Leonardo
Recensioni: 5/5

Siamo tutti vittime di un'ipnosi di massa! Noi strumentalizzati dall'imperialismo americano, LORO vittime di una cultura destrutturalizzata al servizio del potere e in questo "scontro tra civiltà" chi ci perde è proprio la civiltà! La globalizzazione culturale comporta anche questo: illusioni sui valori preconfezionati.

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Voce della critica

L'importante sviluppo dell'immigrazione da paesi musulmani aveva già fatto crescere in ognuno di noi il bisogno improcrastinabile di conoscere usi e costumi, storia e cultura "dell'altro", e invaso scaffali e vetrine delle librerie di testi sull'islam e di classici del pensiero islamico. Dopo l'11 settembre dell'anno scorso il fenomeno si è moltiplicato e il mercato si è quasi inflazionato, salvato appena dalle ansie e dai timori collettivi.

Se non altro, il libro di Fouad Allam è diverso. Non risponde a nessuna delle nostre ansie e delle nostre paure, ma dopo averlo letto con curiosità sapientemente indotta, lo posiamo convinti di saperne molto di più di prima e tuttavia di essere assolutamente lontani, sempre più lontani dalla presunzione di dare una risposta alle questioni e ai problemi che si accavallano sul tema, e nemmeno di prevederne l'evoluzione.

È nozione ormai comune che da più di un secolo la cultura islamica è dilaniata dal confronto tra tradizione e modernità, ed è sempre più evidente la fatale e patologica attrazione esercitata dalla cultura occidentale sul mondo islamico. Per chi, come me, in quel mondo ha un po' bazzicato, gli aspetti di globalizzazione, per lo meno come omologazione di consumi, sono da tempo manifesti, vistosi, non tanto nei paesi di accoglienza dell'emigrazione, quanto piuttosto nei ricchi paesi musulmani dove si concentrano il potere economico e il conformismo tradizionalista, gli emirati del Golfo, l'Iran, Singapore, il Brunei, eccetera.

Pochi mesi dopo la fine della guerra del Golfo, mi sono ritrovato per un periodo piuttosto lungo in Kuwait, a ricoprire un ruolo non adatto a me, quello di presidente di un consorzio nazionale di imprese italiane interessate alla "ricostruzione del Kuwait". Cos'era il Kuwait? Credo che per fare il Kuwait avessero preso una grande quantità di petrolio, ci avessero sovrapposto uno spesso strato di sabbia color sabbia e poi ci avessero messo sopra un enorme miraggio assolutamente occidentale. Occidentale e globale. Anzi, l'impressione che ne ho avuto è che fosse il massimo di globalizzazione occidentale e che fosse stranamente collocato in territorio islamico.

Dei giganteschi giovanottoni obesi, vestiti con svolazzanti abiti tradizionali, con sulla testa il classico asciugamano da macellaio bianco e rosso tenuto fermo con cordoncini imbottiti, neri e lucidi, attraversavano l'ampio viale che correva lungo la marina tenendosi affettuosamente per il mignolo. Al polso pesanti Rolex di una serie speciale chiamata Gulf, scarpe traforate made in Italy e occhiali Ray-Ban, che allora non erano ancora italiani. Andavano a divertirsi nei club con piscina, rigorosamente vietati alle donne, dove su piste d'acqua, incanalate in strutture di cemento armato futuribili, avrebbero potuto giocare, fare gare di velocità con rumorosi e pestilenziali modellini di motoscafi off-shore.

Sul lato opposto della superstrada balneare, dietro ai giardini tropicali irrigati con tutta la poca acqua potabile del Vicino e Medio Oriente, i quartieri della città degli affari, gli alberghi, i palazzi per uffici, i centri commerciali e i luoghi istituzionali del potere, del denaro e del petrolio, grondavano acqua condensata dai condizionatori spinti al massimo delle loro prestazioni per assicurare l'ibernazione degli impiegati, per lo più giordani o palestinesi, e temperature inferiori ai 18° C ai visitatori, riscaldati ogni otto minuti con minuscole tazzine di caffè al cardamomo o bicchierini di tè.

Nell'incombenza di Natale, i bambini impellicciati o imbacuccati nei loro piumini venivano trascinati a vedere gli abeti vistosamente decorati, esposti nei negozi insieme con i prodotti di più lucente, facile, colorato e immediato consumo provenienti dagli States o da altre frange americane come Taiwan, Hong Kong, Tokio, Detroit, New Delhi, Singapore, Pordenone o Parigi. Ho scoperto poco più tardi che in ghetti periferici si accatastavano lavoratori pakistani, yemeniti "e quant'altro", che nelle chiese cattoliche alle sei del mattino pregavano in coro i filippini e in qualcun'altra negri di confessioni improbabili. Sempre in periferia so che c'erano anche quartieri residenziali per ricchi. Noi stessi avevamo affittato i locali della nostra foresteria in uno di quei quartieri, a prezzi nettamente superiori di quelli di Piccadilly Circus. In molte ville di quei quartieri residenziali, un ampio spazio di cortile era riservato alle tende beduine dei parenti in visita; perché tutti i kuwaitiani sono di origine nobile e beduina e fanno di mestiere lo "sponsor". Cioè vivono sulle tangenti lucrate su qualsiasi passaggio di denaro e di merci in tutti i sensi, in entrata e in uscita. Nessuna delle imprese italiane per la ricostruzione del Kuwait partecipava al consorzio per nobili fini umanitari, ma semplicemente per godere di un periodo di esclusività del mercato garantito da un accordo internazionale mediato dalla Camera di commercio italoaraba. Nessuno degli operatori kuwaitiani (o ditte di altri paesi arabi, ma agenti come "di diritto kuwaitiano") era interessato soprattutto ai prodotti o ai servizi commerciati, quanto piuttosto alle operazioni finanziarie su scala internazionale.

Non parliamo dei rapporti interpersonali - cioè "umani" - tra me e i kuwaitiani. Inesistenti quelli reciproci. Nemmeno manifestazioni convenzionali di curiosità. Subite in continuazione da parte mia le manifestazioni di arroganza, le ostentazioni di denaro, eccetera.

Questa realtà documentata e per molti aspetti di difficile comprensione, è ben presente al nostro autore ed è sottesa a tutte le sue riflessioni, togliendo ad esse molti aspetti di generalità, liberandole da stereotipi ma rendendole acute e puntuali. Quindi, per il lettore, le riflessioni di Fouad Allam sono improvvise e interessanti aperture su manifestazioni contingenti e precisamente localizzate, per esempio di movimenti integralisti, ma spesso chiaramente contraddittorie rispetto alle caratteristiche assunte altrove da movimenti analogamente indirizzati o finalizzati.

Ma la globalizzazione è allora anche questo fluttuare sul pianeta di apparenze simili tra loro, di incerte referenze e di nascoste incompatibilità. Un bambino musulmano americano è proprio americano anche perché mastica gomma e beve pepsi, ma un bambino irakeno destinato alle bombe intelligenti non è più americano perché mastica gomma e calza logore imitazioni di scarpe Adidas fabbricate in Cina.

Sostanzialmente ottimista, almeno a lungo termine, anche se non esclude che in certe situazioni gli integralisti potranno arrivare temporaneamente al potere, e fiducioso nella ragione che costruirà tra persone di matrici culturali differenti il nuovo linguaggio della convivenza pacifica, Fouad Allam ci offre un testo ben argomentato e ricchissimo di dati, di informazioni e di suggestioni, e sostenuto da una ampia bibliografia di volumi per lo più molto recenti.

Una bibliografia, ahimè - dice lui - non esaustiva; ma certamente suggestiva. E innumerevoli sono le citazioni riportate nelle note che vanno molto al di là della bibliografia elencata, di oltre cento titoli, alcuni dei quali davvero inconsueti. I ragionamenti dell'autore, infatti, sono confortati da riferimenti e confronti che spaziano dalla storia all'esegesi dei "testi", dalla sociologia politica alla narrativa e alla poesia. Ed è proprio nella letteratura dei primi anni del secolo scorso si trovano infatti le prime tracce evidenti dell'influenza occidentale nella trasformazione delle società islamiche.

Lo scrittore turco Peyami Safa, nel suo racconto Una giovane turca fra due amori e due civiltà, del 1910, racconta di "una fanciulla che, in preda a suggestioni contraddittorie di due civiltà, attraversa segretamente una crisi interiore"; e lo scrittore egiziano Muhammad al-Muwaylihî, nel suo La storia di 'Isa B. Hisham, del 1906, descrive le ambiguità e il malessere delle società egiziana del tempo come risultato del processo di occidentalizzazione: "Non distinguono il vero dal falso, il buono dal corrotto, accettano tutto in blocco, pensando di trovare felicità e benessere (...) Tagliate le loro radici culturali, brancolano nel buio e rimangono nella menzogna. Si accontentano di una evanescente vernice di civiltà occidentale, e accettano la dominazione straniera che considerano un fatto compiuto e un'opportunità di prospettive favorevoli (...) Li seduce coprirsi del lustro già preparato dalla civiltà degli occidentali, senza sforzo né imbarazzo (...) Con ciò il campo d'azione degli occidentali ha preso ai loro occhi vaste dimensioni, e nella convinzione che gli occidentali si trovino a un livello superiore al loro, si chinano e si umiliano, così gli occidentali prendono il sopravvento e confermano la loro egemonia".

Il rapporto del mondo musulmano con l'Occidente è dunque da allora, e forse da prima, dalla spedizione napoleonica in Egitto, un insieme contraddittorio di attrazione e rigetto. E "la globalizzazione non appare improvvisamente con la new economy o con le più recenti tecnologie: è il risultato di una lunga concatenazione di eventi, di ciò che potremmo chiamare il lavoro della storia sulla storia".

Le radici della trasformazione moderna, di cui sono ricordate le prime tracce letterarie, sono poi riesaminate attraverso l'influenza della filosofia moderna europea da Heidegger a Bergson, da Spengler a Guénon, da Evola a Foucault sui nuovi filosofi orientali, e analizzate nei primi movimenti islamisti organizzati tra il 1920 e il 1930 con intenzioni dichiarate di riforma e di rinnovamento, anche se magari intesi al ritorno alle "fondamenta" dell'islam.

Da allora i movimenti islamisti si caratterizzano sempre più anche come organizzazioni sociopolitiche, che in realtà mirano a pervenire al potere con qualsiasi mezzo, dalle elezioni alle strategie eversive. Ma la prospettiva preconizzata del potere islamico si incontra e si combina corrompendosi con i nuovi fenomeni di massa: la scolarizzazione generalizzata, la promiscuità nelle scuole, la televisione e la pubblicità, il turismo popolare e organizzato, l'esodo rurale e l'urbanizzazione selvaggia, e l'ingresso, seppur timido, della donna nel mondo produttivo.

I risultati sono differenti e contraddittori in paesi di popolazione islamica ma di diverso regime. Ci sono infatti paesi più o meno democratici, laici o dichiaratamente islamici, monarchie feudali, emirati e dittature militari che alle medesime stimolazioni della storia, dell'economia o della cultura reagiscono in generale in modo dissimile, con strategie a breve contrastanti; e in netto contrasto, in particolar,e con le teoria panislamiste, di stato islamico mondiale, manifestate e diffuse contro i nazionalismi islamici intorno alla metà del secolo scorso dal filosofo indiano Mawdûdi. Quest'ultimo è tra l'altro il fondatore della Jamã'a islãmiyya, che nei confronti di Ali Butto, quando assunse il potere in Pakistan, proclamò: "Finché saremo in vita, nessuno oserà applicare in questo paese un sistema di governo che non sia quello dell'Islam".

Quasi un saggio nel saggio, un'ampia digressione analizza e confronta con le escatologie neopanislamiche altre ideologie del nuovo ordine del mondo, dal panslavismo all'eurasismo antioccidentale portato avanti dalla rivista "Elementy", in un certo senso in sintonia con le tesi dello Scontro delle civiltà di Samuel Huntington. L'accavallarsi di tesi mondialiste contraddittorie, tra le quali anche quella "talassocratica" guidata dagli Stati Uniti all'insegna del neoliberismo, ridimensiona nei fatti l'impatto dell'islamismo globale contemporaneo, "paradossale frutto del processo di acculturazione e di modernizzazione delle società musulmane" che "rifiuta violentemente una modernità presentata come il prodotto di un Occidente prima coloniale, poi imperialista e produce un'identità islamica devastatrice, amplificata su scala globale".

Tranne che in Afghanistan, con il governo ormai sconfitto dei talebani, i movimenti islamici radicali non sono riusciti in nessun paese musulmano ad affermarsi al potere. Il rapporto tra i vari movimenti nazionali e l'ideologia panislamica ha "intensità variabili", le prospettive nazionali sono spesso tra loro inconciliabili. La complessità dell'attuale situazione "postislamista" impone di chiarire il ruolo della religione nell'arcipelago delle società nazionali musulmane.

"La rivendicazione della centralità del sapere religioso nei confronti di tutti gli altri saperi non solo si oppone alla modernizzazione in corso, ma contribuisce ad avviare il rovesciamento totale di ciò che può definirsi civiltà e cultura nell'Islam". L'intellettuale militante dell'islam contemporaneo utilizza "lo stesso linguaggio, gli stessi miti e gli stessi simboli da Giacarta a Casablanca fino a Marsiglia. Si tratta di un processo di globalizzazione tuttora in corso, dell'elaborazione di un vero e proprio pensiero unico, da cui traspare il drammatico complesso di inferiorità del mondo musulmano nei confronti dell'Occidente".

L'indagine di Fouad Allam si estende ancora su molti altri aspetti dell'attuale contraddittoria e paradossale fase del postislamismo, dagli eclettici conflitti sui rapporti tra scienza e fede ai rapporti tra violenza politica e sacro, per i quali i modelli interpretativi storico-culturali oggi non bastano più per spiegare le relazioni di interdipendenza complessi tra avvenimenti, storia e religione; oggi, cioè, quando l'"iperterrorismo" agisce ormai su scala mondiale, dimostrando come gli stati sovrani non abbiano più il ruolo di protagonisti sulla scena mondiale.

Di grande interesse problematico è l'ultima parte del saggio, sulla diaspora islamica legata ai fenomeni migratori. Sull'islam religione minoritaria, presenza nei paesi sviluppati dell'Occidente frammentata in molte associazioni non coordinate. Ciò ne indebolisce la rappresentatività e ne riduce l'autorevolezza di interlocutore.

Come tuttavia ho detto, l'approfondita analisi condotta da Fouad Allam a trecentosessanta gradi sull'islam dell'era globale non ci prospetta soluzioni o probabili panorami di composizione escatologica. Ci lascia le nostre perplessità e preoccupazioni, confermate da nuovi elementi di conoscenza. Ci lascia "nella schizofrenia dell'era globale", dove l'agitazione di una grande parte dell'umanità alla ricerca di una rinnovata definizione di sé "rivendica qualcosa di extrapolitico".

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Khaled F. Allam

1955, Tlemcen (Algeria)

Khaled Fouam Allam è un sociologo, docente, giornalista e politico di origine algerina, cittadino italiano dal 1993. Ha vissuto in Marocco e in Francia, e in Italia ha insegnato Islamistica all'Università di Urbino, nonché Sociologia del mondo musulmano all'Università di Trieste. Già editorialista de «La Repubblica» e «La Stampa», dal 2010 collabora anche con «Il Sole 24 Ore». Tiene conferenze e seminari in Europa, Stati Uniti, Sud America, Asia e mondo arabo. Ospite e consulente di talk show televisivi, ha fatto parte del comitato scientifico del Salone del Libro di Torino. Deputato del Parlamento italiano nella XV legislatura, è stato membro della Commissione Affari Costituzionali della Camera. Collabora anche...

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