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L' inutile salotto. L'abitazione piccolo-borghese nell'Italia fascista - Mariuccia Salvati - copertina
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Descrizione


Nel periodo tra le due guerre l'abitazione piccolo-borghese subisce una significativa trasformazione, che si può riassumere nel progressivo assottigliarsi di quel confine tra pubbblico e privato un tempo rappresentato dal salotto. Di fronte alla crescente riduzione della sfera privata, al travet e a sua moglie non resta che ritagliarsi uno spazio molto più ridotto. E' quello dell'angolo-studio, in una stanza-soggiorno omnibus: uno spazio peraltro altamente emblematico della nuova diffusione della cultura impiegatizia e della ricerca di uno status symbol a salvaguardia delle differenze di ceto e di classe.
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Dettagli

1993
15 marzo 1993
224 p., ill.
9788833907444

Voce della critica

SALVATI, MARIUCCIA, L'inutile salotto, Bollati Boringhieri, 1993
FANELLI, GIOVANNI / GARGIANI, ROBERTO, Ornamento o nudità. Gli interni della casa in Francia 1918-39, Laterza, 1993
AGULHON, MAURICE, Il salotto, il circolo e il caffè, Donzelli, 1993
recensione di Monteleone, R., L'Indice 1993, n.10

Il libro di Agulhon è apparso in Francia nel 1977. Dice la curatrice che, a leggerlo, è come affacciarsi su "uno squarcio della storia ottocentesca del tempo libero". Ma poi, c'è anche la suggestione della sua "struttura discorsiva", dello stile colloquiale animato da rìfoli ironici: insomma, c'è la lezione godevole del modello "narrativo", coi suoi effetti più innovatori sulla scrittura storiografica. Scorribandando tra lessici e dizionari Agulhon trova che tra salotto (salon) e circolo, camera, società, durarono a lungo, nel linguaggio corrente, equivalenze e accoppiamenti piuttosto singolari, in alcune precise regioni della Francia. Le sue ricerche e riflessioni nel campo di queste "forme tipiche della sociabilità borghese" riprendono oggi vita e calore sull'onda dell'interesse che s'è acceso proprio attorno alle sorti del costume salottiero nella società moderna. Il salotto, il circolo, il caffè, sono luoghi della vita mondana, si sa; ma hanno storie diverse, in attinenza a fattori sociali e politici di diversa natura. Il salotto, evolvendosi da luogo maestevole di riunione di dame attorno alla regina a spazio riservato per privilegio alle classi molto elevate, si aprì, dice Agulhon, a un genere di sociabilità mondana serale promiscua, che è cosa tutt'altra da quella diurna maschile, praticata nei circoli e nei caffè. Ci sono buone ragioni per sostenere che il declino storico del salotto in Francia è cominciato negli anni trenta del secolo scorso, in coincidenza non fortuita con rimarchevoli mutamenti del modo di vivere socialmente. Arrivò il tempo in cui caffè e circoli seppero offrire ai bisogni sociali maggiori soddisfazioni: la vecchia mondanità salottiera entrò in crisi perché le usanze della sociabilità maschile presero il sopravvento.
Va da se che il salotto non muore repentinamente, ma convive con circoli e caffè, però in un crescente contrasto di segno politico e socioculturale. Almeno fino a tutta la belle époque, dal salotto di Talleyrand a quello di Lady Elcho, esso resta il simbolo di una mondanità raffinata, formalmente cortese, perfino eccentrica, dove un Lord Arthur Balfour si esibisce in un galanteggiante dandysmo, o un Ludwig di Baviera s'aggiglia del suo tratto mecenatico, o i potenti del denaro, come Lord Allen, o Carnegie, o Morgan s'imboriano delle loro dispendiose mane di uomini insonni.
Questa gente di salotto, benpensante e rispettosa dell'ordine, che non fuma davanti alle signore, gioca compostamente a whist, beve liquori dolcigni e si rammanta di cultura libresca, nffola al solo pensiero della volgarità della vita di circolo o di caffè, affollati di uomini senza casato, malfidi borghesi, immersi nel fumo lepposo di pipe, sigari e sigaretti, tutti lì a avvinazzarsi o a imbuzzarsi di punches e di caffè, a giocare a biliardo, o al più a sfogliare giornali scostumati, se non addirittura in odore di sovversione.
Poi venne la guerra mondiale e, questa volta si, con gran busso, la crisi del salotto diventò precipitevole. Nessun evento bellico, n‚ prima n‚ dopo, ha avuto effetti cosi strapazzosi nei rapporti di forza tra le classi sociali e tra gli schieramenti politici, n‚ provocarono maggior scombuglio nei bisogni, nei gusti, nelle abitudini, anche abitative, di una società trasformata più che mai in società di massa.
I libri di Fanelli e Gargiani e della Salvati danno informazioni precedenti su quel che è successo del salotto nel clima degli anni venti e trenta, in due casi europei particolarmente significativi, come quello francese e italiano.
Ma prendiamo Adolf Loos. Dalla rossa Vienna di quel dopoguerra, dove l'amministrazione socialdemocratica sperimentava con dovizia di investimenti i nuovi modelli di edilizia di massa, popolare, le teorie di Loos, che campeggiava come architetto capo del settore edile del comune, sollevarono in Europa grande curiosità, ammirazione e dispute risonanti.
Allora a Vienna gli operai cantavano: "Nelle linde case che si levano nella città / abita libera un'umanità dignitosa", e alludevano alle 'Siedlungen', naturalmente, alle "abitazioni del lavoratore", concepite da Loos secondo canoni volutamente difformi da quelli delle abitazioni borghesi. Per cominciare, il giardino: "è la cosa più importante, la casa è secondaria", asseriva Loos. E poi, la cucina abitabile: "la cucina riscalda tutta la casa, e il fuoco è il centro della casa". E infine, i locali di soggiorno: separati nettamente da quelli del riposo notturno, più piccoli e bassi e disorpellati quanto basta a scoraggiare ogni proposito di permanervi oltre lo stretto necessario.
Quando nel 1923 il comune di Vienna avviò il primo piano quinquennale dell'edilizia popolare, ci fu una fitta controversia sulla scelta tra la 'Siedlung' - abitazione uni o bifamiliare - e l''Hof' - abitazione in superblocchi, di massa. Loos, si capisce, sostenne la causa delle 'Siedlungen', e molte difatti ne furono costruite. Ma altri autorevoli architetti, come Karl Ehn e Peter Beherns, ebbero buon gioco nel rendere vincente l'alternativa degli 'Hofe' con l'argomento assai persuasivo della riduzione consistente dei costi. Così Vienna divenne il campo sperimentale della monumentalità cubista, ingemmandosi di enormi edifici squadrati. Alcuni, celebri come il Winarskyhof, o il Goethehof, o il Karl Marxhof, sono rimasti degli esemplari insuperati di quel che la borghesia reazionaria viennese chiamò lividamente "bolscevismo edilizio". E i salotti? Tutte quelle stanze discrete, brulicanti di amabili conversati, accincigliate di tendaggi e bibelots sparsi su tavoli, tavolini, trumeaux, comò, consolles, scrivanie, scriviritti...? Neanche parlarne. Tutto sacrificato inappellabilmente alle ragioni della luce, dell'aria, dell'essenzialità totale. Fanelli e Gargiani mostrano che nei medesimi anni succedeva in Francia la medesima cosa. Salotti e salottini detestati come "santuari soffocanti". La semplicità esaltata come prova di gusto affittito e di spirito ordinatore. Henri Sauvage tesseva le lodi del cubismo, benemerito di "aver liberato di tutto l'ammasso decorativo che mascherava l'armonia delle forme". Francis Jourdain, il più affamigliato alle vedute architettoniche di Loos, si batteva quanto lui per introdurre nelle dimore il fascino dell'intimità. Niente più stanze di rappresentanza, con tutti quei loro insoffribili imbellettamenti: solo mobili semplici, chiari, funzionalizzati alle esigenze di benessere, comodità e pratica eleganza. Dalle pagine dell'"Esprit Nouveau" anche l'arcinoto Le Corbusier tuonava contro i vezzi decorativi. Si apriva il dibattito sull'ornamento e si gridava: funzionalismo! funzionalismo! La funzione è bellezza. Prendeva corpo l'idea della "casa bianca": latte di calce sui muri, gli interni lustri, igienici, assoluta nudità splendente. August Perret echeggiava: "Là dove c'è vera arte non c'è bisogno della decorazione. In arte occorre la nudità, la bella nudità, antica o medievale". Raymond Fischer insinuava: "L'ornamento, come un fungo, fiorisce con la decadenza", e Jourdain spingeva il suo zelo fino a suggerire, all'occorrenza, la pura e semplice eliminazione dei mobili. Era lui a celebrare la defunzione ultimativa dell'antico salone. Tutta la cultura igienista, salutista, giovanilista del tempo cospirava a scalzarlo per far posto alla stanza da bagno, la più grande dell'appartamento, apricante e festevole, come il giardino e il living room multiuso.
Il cambiamento delle abitudini domestiche svuotò il salotto del suo ruolo tradizionale. Nel 1920 in una pagina dei suoi diari Robert Musil fissò bene il senso di quel che accadeva nell'architettura di quegli anni. "Stile architettonico - scriveva. - Perché la nostra epoca non ne ha alcuno? Perché tutto ciò che essa desidera è antidomestico. Viaggi, automobile, bagni, alberghi, teatro, sport, vestir bene, vagone letto, treni di lusso. Delle case si desidera soltanto il comfort". Già: come diceva Tristan Tzara, la dimora dev'essere simbolo del ''comfort prenatale".
In Italia, la scomparsa del salotto cade negli anni del regime fascista, dunque in una realtà politica e ideologica molto speciale. Ma i fondamenti culturali del processo presentano sostanziali analogie con altri paesi. La Salvati le rileva scavando minuziosamente nella storia dell'Istituto nazionale per le case degli impiegati statali. Sugli ambigui sedimenti antiborghesi, anticapitalistici, antiurbanistici dell'ideologia fascista fermenta anche in Italia la polemica contro il salotto: nemico della modernità, spreco di spazi e oggetti inutili, fatua vernice di agiatezza borghese. Si afferma un nuovo spazio domestico: la "sala di soggiorno", vero centro della vita familiare. Il funzionalismo celebra anche in Italia i suoi fasti. Il bagno, la cucina abitabile, emergono in "bella nudità" funzionale. Negli anni trenta, come in Austria, anche in Italia motivi di convenienza economica decretano la fortuna dei "condomini", come modulo di edilizia popolare. Aria, luce, intimità, confortano dell'assenza di abbelliture e di vacui barocchismi. Ovviamente, persistono differenze regionali piuttosto marcate. Nel Napoletano, avverte la Salvati, il "salotto buono", quello, per intenderci, dei merletti e dei sopramobili kitsch, dei rosoli e dei pasticcini delle festività, fatica a cedere il suo spazio "separato" alla quotidianità delle frequentazioni casalinghe. Nel resto del paese si usa il soggiorno-cucina-pranzo, in diverse varianti. Ma Salvati nota che, col tempo, prende sempre più piede la ripartizione tra zona notte, giorno e servizi, a danno degli spazi di ricevimento e per la servitù. Le innovazioni introdotte dalla politica edilizia del regime avranno pur mirato a dare alla donna "più tempo per il tempo libero". Ma poi, rammenta l'autrice, quel tempo libero il regime lo controllava e lo gestiva gelosamente, in un'esorbitanza di adunate, riti e divertimenti collettivi, in forme di socialità pilotata, attraverso cui passava quel che si dice "nazionalizzazione delle masse". È vero: i costumi e lo stile di vita si uniformano negli anni del fascismo, ma questa è cosa che parrebbe appartenere a tutte le società massificate, sotto qualunque reggimento politico. Da noi, il modello culturale fu quello piccolo-borghese, e la casa, nella versione impiegatizia, ne espresse tutta la sostanza perbenista e tradizionalista. Il che, poi, è quel che più indispettiva Adolf Loos, uomo prismatico e stravagante, a cui già il solo abbigliamento folklorico in costume pareva segno di rassegnata rinuncia a cambiar vita, un vero incadaverimento dello spirito.

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