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Introduzione all'ermeneutica - Franco Bianco - copertina
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Introduzione all'ermeneutica - Franco Bianco - copertina

Descrizione


L'intero arco storico dell'ermeneutica, a partire dal costituirsi, nel pensiero greco antico, dei suoi concetti fondamentali interpretazione, spiegazione, traduzione sino alle problematiche e formulazioni più recenti.
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Dettagli

4
2005
13 novembre 1998
268 p.
9788842056430

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Sicuramente una buona pubblicazione del mitico professore.Una grande pecca di questo libro è però il suo stile un tantino "accademico"; talvolta di difficile comprensione. Personalmente credo sia poco didattico, anche se, per la stringatezza dei suoi capitoli, non rinuncia ad essere un'introduzione.

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Voce della critica



Bianco, Franco, Introduzione all'ermeneutica, Laterza , 1998
Bruns, Gerald L., Ermeneutica antica e moderna, La Nuova Italia, 1998
recensioni di Ferraris, M. L'Indice del 1999, n. 03

Ho scritto altrove che Ermeneutica antica e moderna di Gerald L. Bruns è un utile sommario storico, ma ne avevo letto solo l’introduzione, giacché la mia recensione verteva su altri libri. Leggendolo adesso per intero sono costretto a una rettifica: non è utile, non è un sommario, non è storico. È un confuso manifesto il cui assunto di fondo è pressappoco il seguente: i filosofi analitici sono insieme troppo austeri e troppo liberali. Da una parte, sono vincolati da severi limiti argomentativi; dall’altra, sembrano infischiarsene di ciò che rende venerabile una tradizione. L’ermeneutica fa il contrario, e cioè non si lascia condizionare da pastoie logiche (e con questo risulta creativa), però al tempo stesso rivaluta la Tradizione, il peso del passato, la canonicità dei testi, qualunque cosa questo possa significare. È chiaro però che se la tradizione viene riabilitata solo per sottoporla a un uso libero, allora tanto valeva lasciarla riposare in pace: se si devono porre le proprie affermazioni sotto l’autorità di un Socrate immaginario, non si vede perché appellarsi a questo nome se non per scopi retorici. Nel caso di Bruns, non si tratta di semplici dichiarazioni di intenti, ma della pratica effettiva che regola la disposizione degli argomenti, dove venticinque secoli di storia sono dissotterrati per dimostrare quanto giusta sia l’ermeneutica, dai Greci e dagli Ebrei sino agli Arabi, a Lutero, Wordsworth, Heidegger, e altri (Ricoeur, Derrida, ma anche John D. Caputo). Allora, è chiaro che qui non si ha da fare con una vera dimestichezza rispetto ai testi evocati, ma semplicemente con un sentito dire ricavato da una formazione eclettica su una varia letteratura secondaria.

L’affermazione è grave, e come tale va motivata. Certo molti errori vanno messi sul conto della traduzione, che manifesta, per esempio, la tendenza a trasformare in inglesi i francesi e i tedeschi (a pagina 22 abbiamo un bel Michael Foucault). Talvolta però le decisioni non possono non essere poste sul conto dell’autore, come nella melassa linguistica di pagina 337: "In effetti, il conflitto di Mondo e Terra, ciò che Heidegger chiama lo ‘spezzamento’ (Riss), è inciso nella figura stessa, o Gestalt, dell’opera. Questo spezzamento si palesa nel ritrarsi (retrait) dell’opera"; che lascia aperta l’ipotesi che in un qualche suo empito Heidegger avesse incominciato a scrivere in francese. Poche righe più sopra, la melassa non è d’espressione, ma di pensiero: "È possibile considerare le conferenze su Hölderlin come un qualcosa di simile alla versione heideggeriana della Repubblica platonica". Uno dirà: sì, magari è possibile… Ma, altre volte, da una affermazione buttata lì, si spalanca l’abisso: "La critica ottocentesca del testo ha affossato una volta per tutte l’idea che Mosè fosse l’autore dei testi sacri" (p. 89). Dunque, già l’Ottocento è un territorio su cui si possono enunciare sentenze favolose.

Che tutto questo possa non apparire grave, anzi non apparire affatto (non fenomenizzarsi, cioè, alla coscienza di Bruns), dipende probabilmente dalla circostanza che per Bruns l’oggettività è il male, quindi affermazioni oggettivamente false, risultano più emancipative di affermazioni oggettivamente vere. Il nemico è infatti la "condizione di oggettività cognitiva" di Cartesio e Spinoza; ma che cosa si fa dopo, una volta che ci siamo liberati di quei noiosi (direbbe M.me Verdurin) del Seicento? Il fatto è che non si tratta di abbracciare una teoria alternativa della verità ma, al contrario, di assumere la prospettiva di una rivoluzione permanente (l’ermeneutica è "al pari del vecchio Ulisse" "sempre in movimento": così si chiude il libro). Rorty aveva proposto di far prevalere la solidarietà sulla oggettività (o, anche più sensatamente, di prendere atto della circostanza per cui nel senso morale comune la solidarietà è un valore superiore alla oggettività). Bruns oltrepassa Rorty così come John D. Caputo oltrepassa Gadamer, e propone di porre la libertà oltre la verità. Ora, però, la libertà pare essenzialmente licenza, autorizzata da ragioni mitologiche, visto che "Hermes, lo sfaccettato, incontenibile trasgressore notturno (…) tra l’altro, ha generato Pan da una Penelope perfida e poi ha insegnato ai satiri adolescenti a masturbarsi" (p. 312), di modo che "La verità non è più ciò che aderisce, ma ciò che se ne va liberamente" (p. 381). E buonanotte: "come nel detto di Meister Eckhart, ‘soltanto ciò che è privo di principio vive bene’" (p. 389). Bruns, però, deve avere in mente qualcosa come "soltanto chi è privo di princìpi vive bene". E magari ha ragione.

Così, uno potrebbe convincersi, del tutto a torto, che l’ermeneutica è spazzatura. Per rendersi conto di come le cose non stiano nel modo in cui le racconta Bruns (che del resto recepisce a piene mani un diffuso luogo comune), basterà rivolgersi all’eccellente volume di Franco Bianco Introduzione all’ermeneutica. A giusto titolo, Bianco segue l’ordinamento storico della disciplina offerto da Dilthey all’inizio del Novecento: l’ermeneutica nasce in Grecia, ma trova le sue prime vere valorizzazioni nel mondo ellenistico, nel problema della emendazione e della interpretazione dei testi classici, quindi si intreccia con i problemi interpretativi suscitati dalle religioni del libro e dalla codificazione del diritto romano, entra nella modernità con la filologia umanistica, poi con l’esigenza protestante di interpretare la Bibbia senza il soccorso della Chiesa, quindi con l’esigenza illuministica di leggere i testi sacri senza presupposti fideistici. Sin qui il racconto di Dilthey, che per parte sua avanza l’esigenza di fondare scientificamente le scienze dello spirito, l’altra metà del mondo rispetto alle scienze della natura. Poi, però, le cose incominciano ad andare diversamente. Heidegger si guarda bene dal voler fare, in Essere e tempo, una ermeneutica delle scienze dello spirito; al contrario, rifiuta la stessa categoria considerandola filistea, e si impegna piuttosto nel tentativo di far vedere come il comprendere, l’interpretazione, sia la fondazione della stessa ontologia, in maniera più originaria di quello che avviene con le scienze della natura. Gadamer riprende Heidegger, e ne recepisce in particolare la vena antiscientifica, ma con questo finisce per contrastare proprio l’assunto di fondo (ossia l’istanza emancipativa) che stava alla base dell’ermeneutica sino a Dilthey, procedendo anzi a una riabilitazione della tradizione e del pregiudizio.

Dentro a questo quadro, i punti di forza dell’analisi di Bianco sono più d’uno, e mi limiterò a indicarne alcuni (oltre al pregio più generale della pacatezza e della lucidità della argomentazione). In primo luogo, Bianco non identifica affatto l’ermeneutica con l’ontologia ermeneutica, e dunque non riduce tutti gli autori che prima di Heidegger hanno scritto di ermeneutica al ruolo di incompleti precursori di una verità impostasi nel 1927. Così, copisti e filologi non sono semplicemente gli antesignani dei filosofi, ma sono anche detentori di un sapere autonomo e che nei suoi princìpi è ben lungi dall’essere semplicemente archiviato dalla svolta ontologica. A maggior ragione, il tentativo di Dilthey di fare dell’ermeneutica l’organo delle scienze dello spirito resta in senso proprio l’esito epistemologicamente più maturo della storia di questa disciplina, specie se integrato dalle riflessioni di Weber sui limiti specifici del metodo ermeneutico. In secondo luogo, anche dopo Heidegger, non dà per scontato che l’ermeneutica come problema metodico delle regole e dei canoni dell’interpretazione sia definitivamente superato. In terzo luogo, Bianco non nasconde quella che resta l’intima debolezza dell’ermeneutica, ossia la sua strutturale incapacità di fornire una risposta soddisfacente al problema del relativismo, che difatti tra gli ermeneutici viene trattato sempre tra difetto ed eccesso, o sostenendo che anche la matematica è un’opinione, oppure stigmatizzando il relativismo anche in materia di gusti (che cos’è, infatti, la rivendicazione del valore di verità dell’esperienza estetica?). In altri termini, se Bianco riesce a fornire una presentazione veridica delle ragioni scientifiche dell’ermeneutica, è proprio perché non ne fa un mot-valise che riduce una intera storia al precorrimento di Heidegger, e Heidegger a porta girevole che assicura l’identificazione tra l’ermeneutica e l’intera "filosofia continentale".

In particolare, è abbastanza chiaro che il momento centrale dell’autoriflessione dell’ermeneutica si è toccato appunto con Dilthey, e non con Heidegger. Il che, però, significa che le acquisizioni epistemologiche dell’ermeneutica appartengono essenzialmente alla storia (da cui ovviamente possono essere sempre recuperate, ma, appunto, con consapevolezza storica), e non toccano se non marginalmente l’attualità filosofica. Proprio per questo, i temi "ermeneutici" nella filosofia analitica (poniamo, la riflessione di Quine sulla traduzione radicale) non hanno certo aspettato l’ermeneutica di Gadamer o di Heidegger per venire allo scoperto, e d’altra parte la stessa idea che analitici e continentali siano riuniti dalla centralità del linguaggio per la filosofia, oltre a essere un po’ vacua, non è neanche vera, se solo si considera come negli ultimi anni si sia assistito, per esempio, a un ridimensionamento della filosofia del linguaggio a favore della filosofia della mente. A farla breve, non solo l’alternativa (o la virtuosa complementarità) tra analitici e continentali (tra "cowboy" e "indiani", come talora si dice, dando un senso nuovo all’espressione "western metaphysics") non sta in piedi per ragioni geografiche e di merito, ma non tiene neanche per motivi cronologici, indicando, in una storia ideale della filosofia, due fasi successive, che per circostanze spiegabili ma non necessarie si sono trovate insieme.

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