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Intorno a Leopardi - Friedrich Nietzsche - copertina
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Intorno a Leopardi - Friedrich Nietzsche - copertina

Descrizione


A cura di C. Galimberti

Con un saggio di W.F. Otto “Leopardi e Nietzsche”

Postfazione di Gianni Scalia

Testo tedesco a fronte

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Dettagli

2
1992
23 novembre 1992
200 p.
9788870181821

Voce della critica


recensione di Ferraris, M., L'Indice 1993, n. 6


Il giudizio di Nietzsche su Leopardi riflette con prevedibile coerenza l'evoluzione del pensiero nietzscheano. All'epoca in cui, tra Schopenhauer e Wagner, tra le passeggiate con Burckhardt a Basilea e le visite a Tribschen, Nietzsche coglie la profondità del mondo del pessimismo, allora Leopardi può avere un posto nell'orizzonte del suo pensiero. E non per nulla risale a questo periodo il più congruo e specifico retaggio leopardiano: la licealmente nota parafrasi del "Sabato del villaggio" all'inizio della Seconda Inattuale. All'epoca in cui, dopo aver lasciato l'insegnamento e dopo vari anni di vagabondaggio, si porta verso il suo ultimo pensiero, quello di un approfondimento antinichilistico del nichilismo (la famosa ricerca del nichilismo attivo), allora Leopardi, insieme a Schopenhauer, diventa un cliché del pessimismo come preforma del nichilismo, semplice preparazione quando non cattivo esempio di spregio del corpo in nome dei valori dello spirito. E in quest'ultimo tratto di cammino il Leopardi di Nietzsche è poco più che una maschera del pensiero, ridotto com'è alla figura del conte onanista, che è poi la norma, questa volta men che liceale, dell'apprendimento leopardiano.
La buona domanda sarebbe forse di sapere quanto nella prima fase possa avere effettivamente contato Leopardi per Nietzsche. Se, per esempio, Nietzsche avesse mai letto (avesse mai potuto leggere personalmente) le "Operette morali" (visto che lo "Zibaldone" uscì quando Nietzsche non poteva più intenderlo). Alla domanda aiuta in parte a rispondere il volume "Intorno a Leopardi", che riporta i passi nietzscheani in cui si menziona Leopardi o in cui luoghi leopardiani emergono nella memoria letteraria di Nietzsche; più una prefazione di Cesare C. Galimberti, una postfazione di Gianni Scalia e un bel saggio di Walter Friedrich Otto. Le tappe dell'incontro di Nietzsche con Leopardi si possono forse riassumere così: 1) Nietzsche dovette imbattersi in Leopardi filologo per via degli excerpta pubblicati dal De Sinner sul "Rheinisches Museum" nel 1835, come ricorda in apertura il curatore Galimberti. 2) Sicuramente agì in lui l'influsso di Schopenhauer, altra lettura del periodo di Bonn, e che aveva allargato una certa diffusione europea di Leopardi (testimoniata dal saggio famoso di De Sanctis su Leopardi e Schopenhauer). 3) Un momento importante potrebbe essere stato il soggiorno a Basilea e la frequentazione di Burckhardt, schopenhaueriano e italianizzante. Benché Leopardi fosse stato scontento del florilegio sul "Rheinisches Museum", De Sinner aveva contribuito largamente alla diffusione europea di Leopardi, e la sua azione sta alla base del saggio leopardiano pubblicato da Sainte-Beuve nel 1844 sulla "Revue des deux mondes". Quanto a Burckhardt, ci soccorre l'Appendice del saggio di Dionisotti "Fortuna di Leopardi" (negli "Appunti sui moderni", Il Mulino, 1988), che però si concentra piuttosto sulla fortuna inglese e, in subordine, francese. Sta di fatto che il Burckhardt ebbe maestro di italiano l'esule Luigi Picchioni, il cui fratello, Girolamo, aveva pubblicato nel 1844, a Eton, una traduzione latina, con note acute e importanti dell'"Inno ai Patriarchi". 4) Poi certo c'è la conoscenza, nel circolo di Wagner, di Hans von Bulow, traduttore di Leopardi; la lettura estiva delle "Operette", non tradotte, con Gersdorff, che sapeva l'italiano, ecc. Ma è significativo che, quando il Bulow gli propose di tradurle, Nietzsche declin• l'invito con un biglietto eloquente del 2 gennaio 1875, e che mette conto di riportare nel contesto in cui ce lo offre Janz nella sua biografia nietzscheana (trad. it. Laterza, 1980): "Io personalmente, infatti, conosco troppo poco l'italiano e, sebbene filologo, non sono in generale un linguista (la lingua tedesca mi irrita già abbastanza)". Interessante è il commento di Janz, per cui questo fatto (l'ignoranza dell'italiano da parte di Nietzsche), fu annotato con stupore anche in seguito da Overbeck e dai medici: "Dopo gli anni trascorsi sulla Riviera, le sue nozioni di francese e di italiano erano rimaste quanto mai scarse".
Archiviamo la questione, che suggerisce uno studio sulla fortuna di Leopardi in Germania. Ma registriamo per l'intanto il fatto, noto, che ancora il De Sinner inviò nel 1832 a Leopardi copia di un giornale di Stoccarda, l'"Hesperus", dove Friedrich Notter e Ludwig Henschel avevano pubblicato un contributo "Uber G. Leopardi", e la traduzione del "Sogno e del Cantico del gallo silvestre"; e che (come si legge in "Dal Genovesi al Galluppi", 1903, ed. Treves 1930) Ottavio Colecchi aveva tradotto in tedesco-forse non di suo pugno- l'"Elogio degli uccelli", in data che Gentile non specifica. E ritorniamo ai rapporti speculativi. Il fatto che Nietzsche non conoscesse accettabilmente l'italiano-si noti infatti la convenzionalità dei suoi richiami, a Dante, oppure al "Carmagnola" manzoniano, che sarebbe come se qualcuno da noi citasse Goethe o Nietzsche in tedesco-; e il fatto che Leopardi divenga una sagoma mobile o un emblema del pensiero, riempiendo in piccolo una funzione analoga a Schopenhauer, si richiamano a vicenda e ci suggeriscono l'idea che Leopardi per Nietzsche contasse davvero poco. Di qui per l'appunto la circostanza per cui, esaltato dapprima come filologo-poeta contro gli impiegati della filologia, come pessimista contro i nuovi credenti ecc., potesse da ultimo essere biasimato proprio per via del pessimismo e collocato nell'adiafora galleria di una 'Weltliteratur', insieme a Byron, Musset, Poe, Kleist, Gogol' (si noti: un inglese, un francese, un americano un tedesco, un russo: ci voleva l'italiano per completare il giro d'orizzonte cosmopolitico).
Con tutto questo non si vuoi certo diminuire Leopardi. Le circostanze della sua fortuna sono quelle di ogni italiano dopo la crisi che investe la nostra nazione almeno da Metastasio innanzi (per seguire la periodizzazione di De Sanctis che pecca per ottimismo). Se ancora Rousseau poteva imparare l'italiano per leggere il Tasso (aiutato in questo dalla vicinanza linguistica e dalla circostanza di trovarsi a Venezia col compito di ragguagliare il re di Francia sulle manovre dell'agonizzante Repubblica), saranno ben pochi gli stranieri che, nell'Ottocento, ne seguiranno l'esempio (il caso più famoso è quello di Gladstone, ma resta un'eccezione). Anche importante è che, secondo una tradizione avviatasi grosso modo dalla diffusione europea del petrarchismo, il motivo che induce a studiare l'italiano è la poesia, poi l'opera lirica, mai la filosofia. Leopardi, in particolare, segna un punto critico per cui la nostra cultura, dopo una lotta sempre più soccombente con l'Europa, cede le armi e in sostanza rinuncia al confronto; quale filologia, dopo Leopardi, ha potuto prescindere dallo studio del tedesco? Ossia della lingua che Leopardi non conobbe mai. Si veda, in ambito limitrofo, il vistosissimo equivoco di Leopardi su Kant, considerato come un bizzarro boreale, ciò che è segno di un'arretratezza inimmaginabile nella Francia di Cousin, e che coinvolge tutto il circolo di Leopardi, a cominciare dal Giordani. È del resto l'epoca in cui il vecchio ma tuttavia attivo Melchiorre Gioia poté dire che l'"Italia non s'inkanta". L'eccezione starebbe forse nel Ranieri, che aveva viaggiato, conosceva il tedesco, e che diede notizia delle "Età del mondo" di Schelling, annunciando l'interesse poi tradizionale della cultura del Regno per la Germania; ma quando Leopardi arriva a Napoli i giochi sono per lui tutti fatti, culturalmente. La sua resta una cultura che, tra i moderni, e nonostante il progressismo degli amici di Toscana, non si spinge oltre i francesi. Di qui l'atteggiamento misogallico, l'idea che l'italiano sia il vero erede del greco e del latino ecc. (antitetica, invece, e nei fatti realistica, la posizione di Manzoni, pronto a buttare via tutto il retaggio classico per avviare una nuova letteratura, prosastica, alla maniera francese).
Nietzsche, invece, sa bene (e se ne duole) che la Germania è ora una nazione egemone anche nella cultura. Per questo, nonostante il suo grecismo, continua a venerare la Francia, come il modello per la Germania in tanti secoli, abbandonando il quale il Reich eccitato e coi pomelli rossi non ha che da perdere, sostituendo a uno stile imitato l'assenza di stile. Il rapporto con Leopardi e quello con una stele o un cippo, come con tutti gli italiani, che nei loro costumi rappresenterebbero il perdurare di una memoria dell'antico, come vivacità di spirito, superstizione, sentimento panico della vita ecc., che è ciò che d'altra parte induce Nietzsche a fantasticare sulla dieta dei Dogi, sulle crudeltà rinascimentali, sui costumi fieri dei Còrsi ecc. Nel pieno del nostro secolo, il pregevole discorso di Otto su Leopardi e Nietzsche ripete per l'essenziale (e con la cauzione del nuovo asse durante gli anni di guerra) questa prospettiva, che è una delle vie possibili del classicismo (gli italiani come gli eredi di Roma, i germani come i portatori di un nuovo principio che deve amalgarmarsi), l'altra essendo notoriamente la squalifica dell'umanesimo romano-italiano e la costituzione di un ponte privilegiato tra la Germania e l'Ellade.
Dopo la crisi italiana le cose stanno così. Ci si può consolare, come Gioberti, favoleggiando di una filosofia sannitica, etrusca e pelasgica. Più realisticamente, ma sempre restando nel mito, si può negoziare la resa, come lo Spaventa, proponendo l'ingegnosa teoria del circolo per cui la filosofia, cacciata dall'Italia coi roghi dell'Inquisizione, ritornerebbe, dopo il lungo soggiorno tedesco, nell'Italia unita e nella Roma senza papa. Ovvio che Leopardi dovesse puntare sull'inattuale. Ma, detto questo, la filosofia di Leopardi (quando per filosofia si intenda qualcosa di più che una visione del mondo) resta un frutto storicamente tardivo, cioè un fiore del deserto. Perché alla fine Nietzsche non ne può più di Leopardi? Perché nonostante la venerazione per l'antico e per il suo fossile vivente, Nietzsche ha in mente una filosofia dell'avvenire, e progetta azioni politiche, rivoluzioni e sconvolgimenti quali solo un tedesco di allora avrebbe potuto pensare. Nulla di simile in Leopardi. E l'altissima irrisione dei nuovi credenti ("S'arma Napoli a gara alla difesa / De' maccheroni suoi") esprime, coi mezzi di una poesia ancora grande e vera, uno sdegno civile che si riferisce a una situazione specifica, la nostra.
Leopardi non è dunque filosofo perché triste come o più di Nietzsche o perché precursore, che so, di Cioran; ma perché cantore di una provincia spaventosa e di un'Italia crollata e arresa. Il progetto leopardiano delle "Operette", quale è enunciato al Giordani, di dare una filosofia agli italiani (ma, s'intende, che avesse risonanza europea), è allora incompiuto per gli stessi motivi che hanno provocato il fallimento di Rosmini, di Gioberti o del barone Galluppi-le cui protologie o poligonie filosoficamente non sono affatto inferiori all'autore delle "Operette". La grandezza di pensiero di Leopardi, come quella di Montaigne o di Kafka, esorbita dalla filosofia quale la si è intesa da Leibniz innanzi. Se il primo rischio di un confronto tra Leopardi e Nietzsche è dunque quello di riproporre, per l'Italia, le patetiche questioni settecentesche del tipo Que doit-on à l'Espagne?, l'ultimo rischio potrebbe essere allora quello di fare anche di Nietzsche (come fu nella prima e più inerme fase della sua ricezione) un 'Lebensphilosoph' e un moralista; Nietzsche fu mille volte meno di Leopardi come poeta, ma fu tutt'altra cosa da lui come filosofo, perché la poesia è ancora altra cosa dalla filosofia.

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Friedrich Nietzsche

1844, Röcken

Filosofo e scrittore tedesco. Appassionato cultore di musica e filologia classica, nel 1868 conosce a Lipsia Wagner, ricevendone un'impronta profonda, ben avvertibile nelle sue prime opere: La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872) e le Considerazioni inattuali (1873-1876). Nel 1879 le precarie condizioni di salute lo spingono ad abbandonare Basilea per cercare sollievo in Svizzera e in Italia. Quelli che seguono sono anni di intensa produzione intellettuale. Compone: Umano, troppo umano (1878), La gaia scienza (1882), Così parlo Zarathustra (1883-1885), Al di là del bene e del male (1886), Per una genealogia della morale (1887), Il caso Wagner (1888). Continua a passare da una clinica all'altra fino alla morte. Ha lasciato...

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