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Anno edizione: 2018
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Questo poema didascalico fu composto da Pietro Abelardo poco prima della morte, avvenuta nel 1142. Tra le produzioni in versi e in prosa, filosofiche e teologiche, del grande pensatore francese del XII secolo, i "Monita ad Astrolabium" rivestono senz'altro un rilievo trascurabile, al punto che la loro ultima edizione critica, precedente a questa curatissima di Armando, risale al 1895. Si tratta di una raccolta di precetti che Abelardo scrisse per il figlio avuto da Eloisa, Astrolabio appunto, "vitae dulcedo paternae", con l'intento di indicargli i comportamenti da adottare o da respingere per fortificarsi nell'animo, per accrescere la sua cultura e per superare le difficoltà e i dolori dell'esistenza. Considerati dagli studiosi stilisticamente mediocri, zoppicanti nella metrica, ma soprattutto ovvi e retorici pedagogicamente, sembrò a molti che il "Magister Petrus" intendesse con questi ammonimenti offrire ai posteri (più che al figlio) un'immagine di sé retoricamente costruita, ben lontana dalla fama ereticheggiante e polemica che lo aveva reso celebre tra i contemporanei. Gli insegnamenti ad Astrolabio presentavano modelli comportamentali secondo i parametri canonici dell'educazione cristiano-monastica, forse aspirando a imitare, ma con risultati ben più mediocri, l'esempio agostiniano del "De Magistro" per il figlio Adeodato. Il programma che questi "Monita" si proponevano indicava degli obiettivi operativi da raggiungere - partendo da condizioni reali iniziali - nell'amicizia, nello studio, nella preghiera, in famiglia e nel rapporto con il proprio corpo e con la propria mente. Ma in uno di questi distici per il figlio, Abelardo lasciò trapelare il ricordo affettuoso e mai del tutto rinnegato del suo amore per Eloisa, quando scrisse: "Vi sono alcuni che nel peccare conobbero tanto piacere/ che non riescono a pentirsene davvero mai;/ anzi la dolcezza di quelle voluttà è così grande/ che non c'è penitenza che possa soffocarla" (vv. 373-376).
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