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recensione di Bongiovanni, B., L'Indice 1998, n. 5
In conseguenza della deriva mediatico-politica innescata dal "Libro nero" siamo stati per alcuni mesi schiacciati sotto il peso, e sotto l'incubo, di un monolito onnipervadente, sgusciato fuori dagli spazi e dai tempi, e definito senza ulteriori specificazioni "comunismo". La geografia e la storia, un po' ammaccate, stanno ora fortunatamente riagguantando le loro prerogative. E là dove vi era la nebulosa dell'indistinto assoluto cominciano a riapparire le differenze, le specificità, le caratteristiche originali e irriducibili degli spazi (Kabul, Phnom Penh, Lipsia, Vilnius, Samarcanda, Lubiana, Odessa, Managua, ecc.) e delle fasi storiche (Pietrogrado 1917, Monaco e Budapest 1919, Mosca 1938, Pyongyang 1950, Pechino 1960, L'Avana 1962, Saigon 1975, Addis Abeba 1980, ecc.).
Recuperare alla riflessione storica il comunismo è così proprio il risultato più importante del bel libro di Flores, destinato, unendo intelligenza critica e ampiezza d'informazione, ai giovani che vogliono sapere e che, il più delle volte, si trovano davanti a una categoria metastorica, patologicamente in grado di occupare un secolo intero, e generata, nel laboratorio di un qualche" mad doctor", da astratti e intellettualistici furori. Dal comunismo-Frankenstein si passa ora invece al comunismo-rivoluzione, al comunismo-regime, al comunismo-movimento, al comunismo-mito.
Vengono allora confermate le origini russe, non paia un'ovvietà, della rivoluzione russa. Sono infatti i populisti, e in particolare, va aggiunto, la "Narodnaja volja", che, nella peculiarità intranscendibile della congiuntura russo-zarista, hanno "inventato" il partito come "gruppo di cospiratori". Belle anche le pagine sul 1917 e sulle rivoluzioni (l'urbana-liberale con il Governo provvisorio, l'urbana-operaia con i Soviet, la sconfinata rivoluzione contadina) che i numericamente ridotti bolscevichi non hanno, se non in parte, "fatto", ma hanno "afferrato". Hanno anzi afferrato - da rivoluzionari e controrivoluzionari insieme - quel potere politico che le altre rivoluzioni avevano logorato, esautorato e reso di fatto inesistente. I comunismi vengono poi descritti come realtà sorte nei luoghi dell'arretratezza, con i contadini come protagonisti assoluti e poi anche come vittime.
I comunismi sono stati anche in grado di sollecitare (ma mai in modo vincente), prima con l'opposizione alla Grande Guerra, poi con il mito dello Stato socialista, e infine con la vittoria sul nazifascismo, le realtà giunte alla piena maturità industriale. Sono poi diventati potenze (l'Urss e la Cina), con Stati satelliti, con una politica estera mondializzata. L'Urss era stata del resto in grado di avere un ruolo decisivo nella seconda guerra mondiale (con Hitler e contro Hitler). I comunismi hanno poi avuto a che fare con l'immenso processo della decolonizzazione. Vi è stato quindi ben poco di utopistico e di algidamente astratto, o meramente ideologico, nella politica dei comunismi. Vi è stato anzi un notevole grado di febbrile improvvisazione, di disinvolto pragmatismo, di incertezze nel panico ferocemente risolte, e di elastico, e spietato, realismo politico. Non è nell'ideologia, pur fondamentale, che si trova dunque il senso dei comunismi, me nella realtà storica del Novecento.
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