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Dalla Prefazione di Luciano Pellicani, ordinario di Sociologia politica e Presidente della Scuola di Giornalismo dell'Università Luiss "Guido Carli".
"La sociologia e la storia sono un'unica avventura dello spirito". Sono passati ben 40 anni da quando, con queste parole, Fernand Braudel sintetizzò il programma scientifico delle "Annales". 40 anni durante i quali numerosi e assai significativi sono stati i passi compiuti per porre fine all'assurdo divorzio tra la sociologia e la storiografia. Un divorzio che non avrebbe mai dovuto esserci, dal momento che l'obiettivo fondamentale di quella che Robert Nisbet ha chiamato la "tradizione sociologica" è stato quello di elaborare una grammatica per leggere il grande libro della storia. Pure, non si può certo dire che le relazioni fra la "tribù dei sociologi" e la "tribù degli storici" siano sempre regolate dal principio della collaborazione. Il "mercato comune delle scienze umane", auspicato da Braudel, resta un progetto incompiuto. E rimarrà tale sino a quando i sociologi ignoreranno la dimensione diacronica dei fenomeni sociali e gli storici continueranno a pensare che il loro compito sia semplicemente quello di descrivere eventi unici e irripetibili. Che in Italia la "tribù degli storici" guardi con diffidenza alla sociologia non può sorprendere più che tanto. L'aggressiva e instancabile polemica condotta da Benedetto Croce contro la "scellerata logica positivistica" e la sua gnoseologia centrata sull'idea che le scienze altro non erano che "edifici di pseudo-concetti" hanno esercitato sugli spiriti una influenza così potente e duratura che non è del tutto evaporato il convincimento che la sociologia sia una disciplina "ottusa", da evitare come la peste. E questo malgrado l'elevatissimo livello intellettuale delle opere prodotte da coloro su tutti, Guglielmo Ferrero e Gaetano Salvemini che, negli anni caratterizzati dalla "dittatura crociana", coltivarono la storia sociologica, ottenendo dall'estero grandi riconoscimenti. Meno spiegabile è la scarsa attenzione della "tribù dei sociologi" nei confronti del lavoro degli storici in un Paese che ha dato i natali a Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, che consideravano la storia come il laboratorio (di controllo) delle ipotesi euristiche e delle teorie. Si aggiunga a ciò l'enorme prestigio di cui , giustamente, godono Marx e Weber, per i quali la distinzione tra storia e sociologia era una vera e propria bestemmia epistemologica. Ebbene: con questo libro, documentato con la doverosa acribia e argomentato in modo stringente quanto appassionato, Alessandro Orsini scende in campo per ricordare alla "tribù dei sociologi" quello che fu il programma scientifico dei padri fondatori della sociologia la costruzione di un apparato concettuale per decifrare lo sterminato geroglifico della storia universale e per sottolineare la sterilità della storiografia puramente narrativistica, dominata dall'idea dell'evento unico e irripetibile. Che lo storico debba narrare gli eventi del passato, è fuori discussione; ma che egli possa farlo senza l'ausilio di un apparato concettuale è cosa che, alla luce dell'epistemologia contemporanea, sfiora l'insensatezza. Inoltre, lo storico autenticamente tale non può eludere la domanda: "Perché?", per rispondere alla quale è obbligato a consultare l'archivio delle scienze sociali (psicologia, economia, sociologia, ecc.), dove sono registrate le teorie che sono state elaborate per spiegare l'azione umana, le sue motivazioni e le sue conseguenze oggettive. Di qui la conclusione cui perviene Orsini: che la sociologia storica deve essere concepita come una "disciplina interdisciplinare", basata sulla permanente collaborazione fra tutti coloro che sono animati dalla intentio di spiegare il passato per meglio intendere il presente. Che è, poi, la conclusione racchiusa nell'aforisma metodologico di Ernst Topitsch: "La storia senza la sociologia è cieca; la sociologia senza la storia è vuota".
Dalla Postfazione di Renato Moro, ordinario di Storia contemporanea e Prorettore dell'Università di "Roma Tre".
"Il libro di Alessandro Orsini nasce - come egli stesso racconta - dal percorso intellettuale di un sociologo con un forte interesse, forse, sarebbe meglio dire una vera passione, per la storia. A questo percorso il dottorato in Teoria e storia della formazione delle classi politiche che egli ha frequentato con successo a Roma Tre non è stato, pare, estraneo, come pure le tante intense discussioni svoltesi in sede seminariale o nel mio studio di docente sui rapporti tra storia e sociologia. E di questo un docente universitario non può che essere particolarmente contento. Soprattutto, quando si tratta di uno studioso da sempre convinto che i terreni di confine, quelli dallo statuto complicato e difficile al margine tra una disciplina e l'altra, quelli che si prestano alle critiche più facili e più radicali, siano anche i più interessanti e fecondi. Se questo volume potesse contribuire a favorire un più intenso dialogo tra storia e teoria e a rendere più consapevoli e l'una e l'altra della loro reciproca utilità, avrebbe già assolto a una funzione assolutamente meritoria. Non spetta di certo allo studioso di storia discutere l'utilità di una sociologia storica nell'ambito degli studi sociali, perché questo riguarda, naturalmente, i sociologi. Quello che lo storico non può mancare di rilevare, tuttavia, è che la sociologia storica si intreccia in più punti con la stessa rifondazione novecentesca dello statuto della storiografia: la vera e propria ricostruzione della scienza storica avviatasi tra Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna tra l'inizio del secolo e la prima guerra mondiale ha avuto in personalità come émile Durkheim, Ferdinand Tönnies, Max Weber basi di partenza fondamentali. La sociologia storica rappresenta quindi una illustre tradizione che lo storico non può che riverire. [
] Ai sociologi e a Orsini (egli lo ha del resto fatto con grande chiarezza in questo libro) spetta di definire l'utilità che la ricerca storica può avere per la riflessione del sociologo. Per quanto riguarda lo storico, il mio parere è che la funzione delle scienze sociali in rapporto alla storia non sia tanto costruttiva (ad esempio, la capacità di produrre nuove interpretazioni complessive dei fatti del passato), poiché esse non possono sostituirsi alla storiografia e risolvere i problemi che gli storici lasciano aperti o non riescono a risolvere del tutto, ma piuttosto de-costruttiva, non meno decisiva e determinante. Sottoponendole al vaglio di nuove ipotesi e teorie, esse possono mettere in luce la debolezza delle posizioni tradizionalmente e passivamente recepite. Le elaborazioni della teoria sociale possono fungere come una sorta di vaccinazione preventiva per la storiografia, una medicina che la mette finalmente in grado di avviare ipotesi più larghe e di rompere il quadro tradizionale delle certezze e dei luoghi comuni. La ricerca storica, allo stesso tempo, non può che restare saldamente ancorata all'archivio e al documento. Il dialogo e lo scambio di elementi, di dati, di problemi, di concetti tra storia e teoria è fondamentale.[
]"
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