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L' idea del buon padre. Il lento declino di un industria familiare
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1984
296 p., ill.
9788870112061

Voce della critica


recensione di Franzina, E., L'Indice 1985, n. 1

La storia in discesa, come suggerisce il titolo, di una ditta e di una famiglia tra le più rappresentative dell'industria tessile piemontese fra otto e novecento - i Mazzonis cioè - prende avvio, in questo originale libro di Fabio Levi, alla maniera del tenente Colombo.
Va da sé che la scelta d'iniziare una ricostruzione partendo dal finale (ovvero anche collocandosi "in medias res") può vantare presupposti teorici e retorici infinitamente più validi di quello suggeritoci dal referente televisivo. Un grado di parentela minimo, tuttavia, probabilmente sussiste anche senza voler scomodare da subito la prospettiva un po' epocale entro cui l'autore si muove nel delineare le vicende che lungo i decenni portano più che al declino, quasi alla rotta di un'azienda centenaria così ben descritta dal racconto storico che parte da vicino, ma anche così ben configurata dalla filosofia imprenditoriale di tre generazioni di titolari. Del suo dissesto, dunque, fra l'aprile del 1964 c il novembre del 1965, un prologo narrativo traccia le cronache per immettere il lettore, quanto meno, nell'atmosfera abbastanza congeniale ai nostri tempi, della crisi: crisi e difficoltà, qui, d'un organismo economico una volta funzionante e produttivo e crisi d'un mondo ideale e d'una tavola di valori della vecchia cultura industriale subalpina che analogamente interpretati, in tempi diversi, conducono in un primo momento al successo, ma più tardi anche al crollo o al tracollo del piccolo impero dei Mazzonis estesosi via via dalla val Pellice e dal Canavese sino a Torino.
In realtà, Levi non lesina spazio, nel suo lavoro, alle fasi dell'ascesa e della prima affermazione familiar-aziendale inaugurate in sostanza nel 1852 dal matrimonio di Paolo Mazzonis, il fondatore (1817-1885), con la figlia di un medico altolocato, la Teresa Bancalari, che all'intraprendente consorte garantirà un'utile dote e una discreta discendenza maschile. Benché non manchino i doverosi accenni alla carriera imprenditoriale di Paolo, degna di un prontuario del "self-helpismo" coevo alla Samuel Smiles e, benché proprio a lui si debba la precoce formulazione d'una idea del buon padre, capace di saldare senza residui lo sviluppo della struttura familiare al processo di costruzione e di espansione della ditta di casa, protagonisti dell'opera diventano ben presto i figli e i nipoti in cui questa discendenza si compendia. Alcuni di essi (come Cesare, 1853-1942, Federico, 1865-1947, Paolo, 1883-1948 e Luigi, 1895-1977) rimangono, in modi differenziati, ai margini o addirittura, poi, escono dalla compagine aziendale, ma altri come il padre di Luigi Ernesto (1856-1903) e, soprattutto come il padre di Paolo, Ettore (1853-1932), costituiscono la seconda generazione - quella portante e avvincente - di un industrioso casato che già Umberto I aveva provveduto ad illustrare, nel 1880, attraverso la concessione del titolo baronale.
Paolo Mazzonis, venuto su dal nulla e destreggiatosi abilmente in un settore redditizio, ma pieno anche d'incognite e di rischi come quello cotoniero, era stato creato infatti, quell'anno, barone di Pralafera dal nome di una località in cui aveva fatto sorgere alcuni dei suoi stabilimenti. La zona era quella valdese di cui un po' alla volta, per impulso specie di Ettore, i Mazzonis finirono per monopolizzare il mercato del lavoro fra Torre Pellice e Luserna San Giovanni, realizzando in fabbrica un potere che senza sforzi si prolungava poi sin dentro le comunità locali. Le popolazioni d'estrazione rurale e di forte ispirazione religiosa, anche nella componente cattolica, non avevano costretto i Mazzonis a compiere interventi grandiosi o costosi d'ingegneria sociale perché "a colmare le piccole falle di una società ben strutturata" come quella della Val Pellice bastavano pochi strumenti di controllo paternalistico e funzionale che escludevano la scelta, ad esempio, dei "villaggi operai" attuata in tante zone tessili della Padania e, a Torino, dai Leumann. E non è da escludere che la forte coesione della società contadina cattolico-valdese contribuisse a ispirare le vedute, su tutt'altra scala, dei padroni all'atto di gestire equilibri aziendali e familiari compenetrati, ma sempre più complessi. Senz'altro, ad ogni modo, si trattava d'un fatto non casuale che preservò a lungo i Mazzonis dai rischi della moderna conflittualità operaia garantendo "una tenace resistenza alla prima predicazione del socialismo" fra lavoratori che tutti, fossero donne, uomini o bambini, trovavano impiego presso le fabbriche tessili dei nuovi signori locali nella figura del cui capo, di volta in volta Paolo, Ettore o Giovanni, essi per primi riconoscevano, forse, un "buon padre".
Il tragitto dal settecentesco Barone di Leutrum, il popolare "Barùn Litrùn" dei canti piemontesi del Nigra sepolto nel 1755 "an val d'Luzerna", al primo Barone di Pralafera venuto a morte nel 1885, comportava aggiustamenti psicologici e culturali di tal genere che non impediscono tuttavia di leggere l'evoluzione dell'idea del buon padre in diversi ambiti o su tutt'altri sfondi. Lo si ricava dalla lettura delle volontà testamentarie dei singoli componenti il clan aziendale e lo si desume, in particolare, dall'analisi storica che Levi conduce a riguardo dell'industria cotoniera dei Mazzonis la quale crebbe anche in rapporto (o in sintonia) con l'evolvere di determinate situazioni politiche e politico-economiche dell'Italia post-unitaria.
Paolo Mazzonis, ad esempio, rappresentava già da sé il prototipo dell'imprenditore manifatturiero consacrato politicamente, negli anni verdi della Sinistra al potere, dall'opzione industrialista e protezionista con cui le nostre classi di governo cercarono di assicurarsi un allargamento della propria base di consenso e, contemporaneamente, uno sviluppo di tipo capitalistico nel paese.
Un sicuro inserimento negli ambienti finanziari e nella stessa area di comando di uno dei suoi punti strategici, la Torino industriale di fine secolo, con gli occhi sempre fissi su due entità che si coordinavano in una, la famiglia, cioè, e il cotonificio, si accompagn• via via all'ascesa sociale dei Mazzonis sotto Paolo, Ettore ed Ernesto. Mentre l'acquisto di un signorile palazzo, già appartenuto a Clemente Solaro della Margherita, ne dava l'avallo sin dal 1870, tra questa decade e lo scoppio della prima guerra mondiale, mentre appunto s'ingrandiva e prosperava l'azienda, l'accrescimento dei beni di famiglia e la formazione di un vasto patrimonio immobiliare contrappuntavano gli episodi della complessa strategia matrimoniale tesa a consolidare le fortune di casa (ossia anche dell'industria cotoniera) e a imparentare i Mazzonis con altre famiglie sia borghesi che aristocratiche (una delle figlie di Ettore, ad esempio, sposerà Ermanno Leumann).
L'insistenza di Levi, che qui rispecchiamo, su molti particolari di carattere quasi genealogico, riassunti a grandi linee in una tavola esplicativa preposta al testo assieme, del resto, a un utile prospetto delle vicende societarie seguite alla morte del fondatore, non dipende da una stravagante reviviscenza d'interessi araldici per una classica dinastia di borghesi operosi innalzati al rango gentilizio da meriti industriali.
Collocandosi a mezza strada fra una storia demografica o prosopografica oggi abbastanza in auge ed un'analisi storico-sociologica della famiglia rilanciata da Marzio Barbagli, quell'insistenza implica invece la duplice, salutare curiosità dell'autore di conoscere, e di far conoscere, da un lato la filosofia che presiedette alla crescita e tuttavia anche al declino di una intrapresa economica di rilievo e dall'altro l'intenzione di metterne in luce i legami e le interconnessioni con le molteplici realtà toccate o animate, in una determinata area dell'Italia manifatturiera dal cotonificio.
Sulla scia dei modelli recenti, come quelli offerti da R. Romano rispetto ai Caprotti, un altro casato tessile alquanto illustre, ma forse anche con maggior forza, l'esame alternato di Levi, che è anche un esame integrato delle vicende familiari e di quelle aziendali specie a partire dai protagonisti della seconda generazione consente, quindi, di decodificare l'ideologia apparentemente liberista "tour-court" dei Mazzonis. Se essi, come d'altronde Paolo, il patriarca, accettarono gli indubbi vantaggi del vincolismo doganale, non mostrarono mai di volersi discostare, per il resto, dalle rigide visioni di tanti altri colleghi piemontesi a cominciare da Luigi Einaudi e, meglio ancora, dal setaiolo-economista di Bricherasio Edoardo Giretti.
Al tempo dei primi grandi scioperi d'età giolittiana e poi sotto il governo Nitti, nel 1920, l'atteggiamento, conseguentemente mantenuto dai Mazzonis, di contrarietà al principio della contrattazione collettiva ovvero alle materiali rivendicazioni dei propri operai, ideologicamente annessi in una visione ultrapaternalistica alla famiglia, fecero soprattutto di Ettore il campione di posizioni che i socialisti piemontesi (e più tardi i comunisti dell'"Ordine Nuovo") non esitarono a bollare col titolo di "feudalismo industriale". L'etichetta era da decenni d'uso frequente nelle polemiche antipadronali del ramo tessile - basti pensare alle sfuriate degli operaisti lombardi e veneti contro i Cantoni, i Rossi, i Marzotto ecc. - ma per una volta colpiva forse, davvero, nel segno riscattando l'apparente melodrammaticità della definizione. Che comprendeva poi, se non altro, l'accoglimento di un punto di vista subalterno non necessariamente e sempre animato da spiriti di rivalsa: ad ogni buon conto, ancora all'inizio del secondo conflitto mondiale quel punto di vista risultava strettamente intrecciato al mistero che la riservatezza imposta ai componenti della famiglia ingenerava intorno a quanto potesse "accadere dietro le porte sprangate delle ville" padronali. L'idea del buon padre, gestita e amministata in prima persona dal patriarca industriale di turno, serviva infatti anche ad inculcare i dettami di un'etica di comportamento rispettata, in linea di massima, da tutti con scarse concessioni alla spettacolarità e allo sfoggio d'una ricchezza d'altronde presupposta. Ma, come ben dice Levi, "se si fosse saputo, ad esempio, che un Mazzonis nei dodici mesi del '41 o del '42, spendeva per sé quanto 100-120 tessitrici di Pralafera guadagnavano nello stesso periodo, forse un frammento di quel mistero sarebbe stato svelato e, così, sarebbe svanito in parte il fascino che l'ingiustizia riconosciuta, ma imperscrutabile, portava con sé".
La riservatezza e il mistero facevano parte tuttavia, della stessa filosofia imprenditoriale vecchiotta ed arcigna che contribuì via via ad isolare e più tardi a perdere i Mazzonis. C'è da dire, infatti, da ultimo, che a partire dagli anni venti sempre più spesso essi avrebbero dovuto misurare la disapprovazione di numerosi colleghi e d'imprenditori "leader" come il senatore Agnelli, scontrandosi in più d'un caso con le stesse autorità statali, dai prefetti nittiani ai gerarchi di un regime, come quello fascista, prodigo per altri versi di sostegni e di riconoscimenti, ma contraddittoriamente considerato in famiglia, così da provocare, in qualcuno, la formazione d'un comprensibile atteggiamento antidittatoriale. Fosse vero o no quello che scriveva nel corso delle dure vertenze del biennio rosso Giuseppe Prato, inneggiando da solo ai quasi soli Mazzonis, che avrebbero incarnato l'"optimum" del sistema patronale e, cioè, che essi stavano provando l'inesausta vitalità d'un antico metodo da troppi creduto superato o languente, è sicuro, d'altro canto, che uomini come Ettore e come Giovanni impersonarono, con esiti diversi, la figura dell'imprenditore che "reclama la cura di regolare liberamente le condizioni del lavoro della propria azienda, facendosi nel contempo un dovere di adottare le norme più adatte al benessere morale e materiale degli operai".
Conservata, ma non reinterpretata dopo l'ultima guerra, una tale filosofia, accanto, s'intende, a scelte tecnologiche e d'investimento sbagliate, non resse all'impatto dei nuovi tempi e non poté superare la congiuntura del biennio 1964-65, impedendo ai Mazzonis sopravvissuti all'estinzione dell'azienda e alla diaspora della famiglia di raccogliere vent'anni più tardi, ossia oggi, un altro titolo probabile di merito: quello di precursori, in parte, della stagione reaganiana all'insegna del liberismo rinato.
Ma, piuttosto che un'usurpazione e una giustapposizione strumentale di titoli - vista l'apparente linearità della "reaganomics" e considerata l'infida polivalenza delle misure di deregulation economica di questi nostri anni ottanta - ci sembra meglio che alla dinastia dei Mazzonis e alla loro idea di buon padre sia stato dedicato un buon libro di storia.

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Fabio Levi

Dirige il Centro Internazionale di Studi Primo Levi. Per Einaudi ha curato, insieme a Domenico Scarpa, il libro di Primo Levi e Leonardo De Benedetti, Cosí fu Auschwitz. Testimonianze 1945-1986 e ha pubblicato Dialoghi (2019). Tra le altre sue pubblicazioni, La persecuzione antiebraica. Dal fascismo al dopoguerra; L'ebreo in oggetto. L'applicazione della normativa antiebraica a Torino 1938-1943; Dodici lezioni sugli ebrei in Europa. Dall'emancipazione alle soglie dello sterminio; tutti volumi pubblicati da Zamorani.

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