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Un libro corale che ci ricorda il passato di lotte operaie e di conquiste dei diritti, un romanzo che obbliga ad una domanda: Cosa rimane. Cosa sopravvive di quella stagione? di quell’Utopia che è stata comune denominatore di tutti quegli uomini e quelle donne indignati dalle ingiustizie del mondo e intenzionati a ripararle. L’IDEA CHE CI UNIVA è un romanzo più che mai attuale perché oggi quelle ingiustizie sono ancor più evidenti. Nelle stazioni non ci sono più viaggiatori con valige di cartone tenute da uno spago, ma sulla sponda del mediterraneo ci sono uomini e donne, e bambini che rischiano la vita per guadagnarsi uno straccio di libertà e un pezzo di pane. E’ un libro che ci ricorda che fino a quando ci saranno sfruttati, diseguali, ultimi, precari bisogna essere come le capre dell’Aspromonte fiere, senza padroni libere di scegliere il proprio destino.
«Di tutto ciò che è scritto io non amo se non quello che taluno scrisse col proprio sangue. Scrivi col sangue, e tu apprenderai che il sangue è spirito». Il libro “L’idea che ci univa” è di certo benedetto da queste parole dello Zarathustra di Nietzsche. Pietro Criaco ha scritto in tal senso un romanzo spirituale, necessario soprattutto in questo periodo di accentuate discriminazioni sociali, di ulteriori e inediti ostacoli posti per la fruizione della cultura e del lavoro, di gravi lacerazioni comunitarie. Pietro Criaco ci parla invece di unità, di solidarietà, di una comunità tesa verso l’interezza e la ricomposizione. Sin dalla copertina l’Autore ci mostra il segno dell’unione e della condivisione: la foto di bambini con il pugno chiuso alzato. Il pugno chiuso: un cuore pulsante, individui affratellati come dita che si uniscono, compagni (coloro che, etimologicamente, “condividono lo stesso pane”) uniti da un’idea di giustizia per tutti. Il romanzo, commovente come un abbraccio d’addio, racconta le vicende di Africo, un martoriato paese della Calabria meridionale. Siamo negli anni Settanta e l’intera comunità, a costo delle repressioni poliziesche, a costo della stessa vita (quando essa diventa meno importante della libertà), si ribella per l’uguaglianza dei diritti e per non dover emigrare in cerca di lavoro. Il fulcro della narrazione ruota intorno alla figura di una famiglia, di una donna con i propri figli, nell’aleggiare psichico del padre emigrato in Germania. La solidarietà si manifesta persino tra due poliziotti colpevoli della repressione violenta degli africoti in rivolta, quando uno dei due si licenzia per disgusto verso l’azione compiuta e l’altro, suo amico, solidarizza con tale scelta. “L’idea che ci univa” è un dono prezioso contro il seme della zizzania, per l’unità, nella gioia: «Un’energia che passa dai grandi ai piccoli e non si ferma, non separa ma unisce. È un coro, un grido di vittoria, una gioia smisurata che non trova confini.»
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