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Dettagli

5
1987
265 p., ill.
9788843522163

Voce della critica


recensione di Gabetti, R., L'Indice 1987, n. 9

Rimossa la prima pigrizia, mi sono immerso volentieri in questo pezzo di passato che è mio, che è mio e di Isola, che collega noi assieme a tanti altri amici, nati fra gli anni venti e gli anni trenta di questo secolo. Berlage, essendo nato nel 1856, avrebbe potuto essere mio nonno. Saltata una generazione è più facile il racconto: parlando tanti anni fa - su "la Casa" n. 6 del 1959 a pag. 29 - citavo la Casa Giaccone di Riccardo Brayda, del 1890-'92, che, specie per quel suo porticato verso corso Vinzaglio, costituiva a mio avviso un precedente riferibile proprio a Berlage: si tratta di fenomeni che un confronto diretto delle fonti non ha ancora potuto approfondire. Le difficoltà di quel mio primo accostamento, infatti, sono connesse alla multipolarità dell'architettura occidentale fra Ottocento e Novecento, alla suadente ricorrenza di capolavori riscontrabili in aree diverse. Dico occidentale, per comprendere non solo l'Europa, ma certamente anche l'America, dove quel modello compatto di cultura artistica, tecnica, sociale, economica, politica, aveva avuto modo di manifestarsi.
In questo magnifico volume Electa, una prima novità: pur essendo opera monografica, incentrata su di un solo personaggio, poche sono le note biografiche (ho trovato l'anno della morte, 1934, a pagina 259, citato come anno della "commemorazione corale" per la sua scomparsa; per i primi anni di vita e per la sua formazione, la lettura delle pagine 102,103 è del resto assai ricca di informazioni precise). Questa voluta distanza dalla vita privata evita agli autori la macabra seduta sul letto di morte, volta a psicanalizzare ove possibile il defunto. Alla base di molte biografie, anche di architetti, sta invece, troppe volte, il tentativo di interpretare intenzioni, atteggiamenti inespressi, tendenze inesplorate. La distanza d'osservazione comporta difficili collimazioni, quando con ogni ottica possibile si tende ad analizzare il personaggio: gli errori di interpretazione che ne conseguono sono spesso gravi.
Salvato così dalle troppe mane biografiche oggi correnti, il lettore - e anche questo è giusto - viene affidato alla sua personale cultura per sapere se Berlage rappresenti o meno un caso isolato. Poiché non lo rappresenta, mettergli attorno tutti gli altri avrebbe certamente tolto all'opera quel carattere di monografia a schede con bibliografia estesa, che Sergio Polano ha acutamente e saggiamente dato alla complessa organizzazione del volume.
Giovanni Fanelli (p.9), forte delle prove già date nel 1968 e nel 1978, indaga sul contesto delle 140 opere schedate, mettendo in risalto quelle principali: si tratta della Borsa di Amsterdam (partecipazione al concorso indetto dal comune, svolta nel 1884-85, incarico assunto e svolto nel 1896 e segg.) del Gemeente Museum dell'Aja del 1919-20 e 1928-35 e, ancora, di una serie fittissima di realizzazioni di varia scala. Fra i suoi prodotti non mancano il piano regolatore, il piano particolareggiato, il progetto architettonico d'insieme, il palazzo, la villa, il villino, l'arredo ecc. Importante il tracciato formativo individuato da Fanelli nella linea di Gottfried Semper, linea che aveva alimentato anche il più anziano Otto Wagner (1841-1918), la cui presenza parallela risulta significativa per tutto il tracciato europeo di quell'architettura; mentre per il parallelo tracciato nordamericano sta Frank Lloyd Wright (1896-1959): e sta soprattutto Louis Sullivan (1856-1929), coetaneo quindi di Berlage.
Acutamente Fanelli fa partire la ricerca di Berlage, da quelle stesse fonti cui aveva del resto attinto il suo di poco più giovane collega, il grande belga, Victor Horta (1861-1947). Si tratta di movimenti architettonici e figurativi centrati sui Paesi Bassi, che vanno dalla pittura alla grafica e che possono essere posti alle autentiche sorgenti dell'art nouveau e poi dell'arte moderna. Lungo il saggio di Fanelli si squadernano i più bei disegni (a colori) di Berlage: un percorso che vale di per sé l'acquisto del volume.
Vincent van Rossem traccia il denso e difficile curriculum di Berlage attraverso la costruzione delle città olandesi, a partire dai suoi piani di Amsterdam, del 1914-17. Delizioso qualche suo inciso, ripreso direttamente dalla cultura di Camillo Sitte (1843-1903): "Quando l'area presenta accidenti naturali, come acque, colline, boschetti ecc., questi vanno rispettati ed accolti nel piano. Combinando con senso d'arte gli elementi naturali e le aree rigorosamente disegnate, otterremo gradevoli variazioni, necessarie per combattere la monotonia di un piano troppo coerentemente regolare" (H.P. Berlage, 1909). Per il resto la sua prosa pur colta, ma corrente allora nei circoli architettonici europei, chiude verso l'eclettismo stilistico, con una durezza che fa stupire (o che non si fosse mai visto nello specchio? o che ce l'avesse solo con la rigida ripresa degli studi antichi? o che semplicemente e pericolosamente, per sé, strizzasse l'occhio al futuro?).
Nelle sue conferenze egli diceva press'a poco quello che in quegli anni dicevano gli altri suoi coetanei, talora un po' meglio, talora in modo più confuso (specie quando gli argomenti sfioravano temi politici, sociali, economici). Certo valeva in quel passaggio verso il Novecento la perdurante alleanza interclassista: alleanza che aveva forse avuto modo di sopravvivere all'Ottocento, nella singolare enclave olandese.
I progetti urbanistici di Berlage risultano di una autenticità pregnante: lo stesso tema dell'abitazione collettiva, trattato qui con grande competenza da Jan de Heer, dà modo di cogliere il meglio delle sue proposte; se la linea di partenza è quella dell'igiene, e poi del comfort, la normalizzazione consente a Berlage di mettere ordine nel suoi interventi, mantenendo nel disegno dei singoli blocchi costanza di ritmi, conclusi con censure di testata ricche e a volte stravaganti. Nel 1918, Berlage affermava: "In realtà il principio di ogni stile è in fondo, l'intera architettura, altro non sono che ordine ritmico, concatenazione di unità uguali, che sono poi essenzialmente la base dell'intero partito decorativo" (quest'ultimo aggettivo segna quale fosso avesse scavato Loos già dieci anni prima e quanto però rimanessero lontane le case operaie di Berlage dalle Siedlungen dei razionalisti tedeschi). Queste sue case di Amsterdam a tre piani fuori terra costituiscono l'apice di una larga ed estesa produzione di case per operai, allora registrabile in tutta Europa e anche in Italia. Nelle case a due piani, costruite con Van Epen ad Amsterdam nel 1912, è difficile discernere quanto fosse da lui proiettato avanti, quanto fosse radicato indietro (il ricordo va alle case operaie diffuse dalle grandi Esposizioni parigine nella seconda metà dell'Ottocento; l'attualità va all'oggi, con un salto di settant'anni sopra il razionalismo europeo, operato proprio dai giovani olandesi nostri contemporanei). Maestro sempre, Berlage segna un avvicinamento - a partire dagli anni '20 - verso il razionalismo, che ricorda i casi analoghi di Van de Velde e di Annibale Rigotti.
La premessa (p.92) alla conferenza di Berlage a Milano nel 1928 è di estremo interesse: è Ugo Ojetti a proporla, nella sua qualità di presidente dell'Associazione tra i cultori di architettura; è il segretario di quell'Associazione, Giovanni Muzio (che aveva 37 anni meno di Berlage) ad organizzarla. L'attacco di Berlage alla tradizione architettonica per tanti anni registrata, accanto alle innovazioni dell'art nouveau (e da riviste anche autorevoli come "Academy Architecture") è sprezzante: un cenno garbato al suo maestro Cuypers (1827-1921), che richiama in me il rapporto parallelo fra Sullivan e Richardson (1838-'86), avvia Berlage ad affermarsi come protagonista della "vittoria di una architettura olandese moderna". Di certo Muzio non aveva sprecato quell'occasione per rafforzare la propria linea. Singolare è il silenzio sulle avanguardie, d'altra parte già allora attive ad altissime intensità proprio in Olanda. Il suo era in effetti un mondo professionale chiuso, dotto, pacato: nessun contatto, neanche sociale, poteva legarlo con i futuristi, i postfuturisti, i neoplastici, che già nei primi anni '20 erano affermatissimi e non solo in Olanda.
Negli anni della sua prima formazione, Berlage aveva deviato il flusso del "Grand Tour", per compiere un esteso viaggio nelle città italiane minori: mi pare di cogliere nell'elenco non solo le città d'arte, ma le altre, e poi il meridione: in questo il suo viaggio ricorda quelli dei maestri austriaci dell'art nouveau.
La formazione scolastica di Berlage nella scuola da poco fondata da Semper, aveva dato subito frutti eccellenti: mediata, da un purismo neoclassico passa poi ad esperienze di vivace graficismo, in contatto con nuovi ambienti artistici, non solo olandesi. Licenziatosi nel 1878, sei anni dopo lo vediamo al lavoro nel concorso per la Borsa di Amsterdam: la variante interna del concorso di II grado, del 1885, rivela il maestro nascente; le strutture d'acciaio della copertura vetrata poggiano su mensole in ghisa, e queste su articolate pareti murarie. Il raccordo al nuovo, era ormai deciso - e si capisce quindi che avesse suscitato allora commenti negativi. Passando al progetto definitivo del 1896 (diciotto anni dopo aver concluso i suoi studi), Berlage svolge a pieno il suo linguaggio personale: un linguaggio che riprende il passato e lo unisce al presente, secondo la linea di una convinta reinterpretazione storica.
Ma non sono solo le grandi opere a farlo considerare maestro: la sopraelevazione del Laboratorio Konnig e Bienfait del 1899-1900, con quella graffa orizzontale (un arco ribassato, posto a coronamento di un piccolo edificio a due piani fuori terra), dà idea della sua pertinenza propositiva (p.159); così la scala del Palazzo De Algemeene, del 1905, è occasione per un disegno da manuale (p.169); e ancora la villa Roland Holst (p.171), in cui il richiamo a Margherita Kropoller è evidente; fino a quella minima sala di lettura per la Oosterspeeltuin (p.177), alla quale va tutto l'affetto dei miei ricordi personali nel senso che, pur non conoscendola, pare che io l'abbia, nella memoria, frequentata per anni, fra scuola e studio.
Purtroppo la composizione a schede non facilita la concentrazione verso qualche opera d'eccezionale importanza, come la Holland House di Londra del 1914-16 (p.217), che rimane, a mio avviso, il vero capolavoro di Berlage, negli anni della maturità.

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