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Harmonium. Poesie (1915-1955) - Wallace Stevens - copertina
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Harmonium. Poesie (1915-1955) - Wallace Stevens - copertina
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1994
XXIII-699 p.
9788806126216

Voce della critica


recensione di Pagnini, M., L'Indice 1994, n.11

Con la comparsa di questo bel volume è ora dato agli italiani di possedere una buona metà dell'opera poetica di Wallace Stevens, con testo inglese e traduzione a fronte. Il 1954 aveva visto la pubblicazione di "Mattino domenicale e altre poesie" a cura di Renato Poggioli, il 1986 "Il mondo come meditazione" e l'"Opus posthumous" a cura di Massimo Bacigalupo (Guanda), il 1987 le "Note verso la finzione suprema" (Arsenale) e il 1992 le "Aurore d'autunno" (Garzanti), entrambi a cura di Nadia Fusini. Adesso, di nuovo a cura di Bacigalupo, una vasta scelta che va dal 1915 al 1955 attraverso i "Collected Poems" (1954) e l'"Opus posthumous" ( 1957). Il titolo della silloge, "Harmonium", che era quello della prima raccolta di poesie dello Stevens (1923), viene ora portato a coprire simbolicamente la selezione antologica seguendo - ci informa il curatore - l'intenzione stessa del poeta che così avrebbe voluto nominare l'opera intera. Le traduzioni, condotte nell'ideale della massima fedeltà, sono del Bacigalupo, fatta eccezione per qualche salvataggio di traduzioni preesistenti, e contengono anche ritraduzioni di opere già comparse in italiano (ad opera di Giovanni Giudici, Renato Poggioli, Glauco Cambon e Nadia Fusini). Il libro è confezionato con grande scrupolo. Contiene un denso apparato di annotazioni, tutte le informazioni possibili sulla cronologia dei singoli componimenti, sulle loro prime comparse, sulle loro strutture formali e persino sintetizza i contenuti dando anche alcune direttive d'interpretazione; impresa rischiosa se si considera l'eccezionale chiusura ermetica dell'opera dello Stevens e l'altissima ambiguità che ne deriva, ma utile comunque perché assieme alle iniziative personali del Bacigalupo vi si vedono confluire le proposte della maggiore critica statunitense: spesso sentieri appena aperti nella giungla di una delle produzioni più ardue e disarmanti della Musa novecentesca.
Si sa che la poesia del Novecento è una poesia difficile, ma Stevens spinge ai limiti estremi le due prassi fondamentali delle poetiche del secolo: quella della 'negatività' e quella del 'metaforismo assoluto'. Quest'ultimo ha portato, nell'eccesso stevensiano, a una quasi totale decontestualizzazione del discorso, che oblitera i referenti e tace sulla situazione espressiva. Neppure i titoli, spesso bizzari o ironici, aiutano gran che. D'altronde si sa che la fatica dell'interprete non può prescindere dal collocamento, reale o ideale, del dettato laconico e lacunoso in un qualche contesto che delimiti l'illimitato e dia voce ai silenzi. Per Pound e per Eliot il contesto è indicato principalmente dai frammenti culti, straniati, e dalle ideologie sussunte. Per lo Stevens, invece, che nella sua radicale negatività non si serve di precedenti strutture di fede o di pensiero, n‚ di alcuna tradizione culturale, a parte l'esempio e l'insegnamento del simbolismo francese, la contestualizzazione ermeneutica consiste soltanto nello sforzo di ricondurre l'estrema frammentazione a un ipotetico e astratto pensiero intimo ("noi viviamo nella mente" Stevens tiene a sottolineare). Soccorrono soltanto ciò che il poeta ha esplicitato in termini di teoria letteraria (le sue conferenze, compaginate nell'"Angelo necessario", a cura di Massimo Bacigalupo, Coliseum, 1988) e le sue occasionali confessioni epistolari. Ogni altra illazione è confinata all'ambito globale della sua stessa poesia, fatta di criptiche enunciazioni e di "riflessioni in atto": la tematica fondamentale dell'opera dello Stevens è il "fare poesia", e il contesto di cui l'interprete ha bisogno è, tutto sommato, soltanto il "corpus". È stato osservato, a ragione, che è l'"intera" produzione dello Stevens che costituisce il suo rilevante fatto poetico, e non tanto le sue singole componenti.
Questo fare poesia è calato in una situazione esistenziale che esaspera tutte le tendenze della 'negatività': poetare senza trascendenza teologica, senza speranza escatologica, senza fede nei sistemi di pensiero, senza affidarsi a un linguaggio sperimentato, senza un interlocutore sia pure vagamente delineato (Stevens parlerebbe di un'élite; però non sa se c'è e dov'è). Infine anche senza contare sul reale, in senso empirico, vista la sfiducia del poeta nell'oggettività della percezione.
Ho detto riflessioni in atto. Sì, perché carattere fondamentale dei dettati stevensiani è quello di offrirsi come processi (Stevens parla di "acts of the mind") "verso" conclusioni che vengono raggiunte "solo in parte", o "non vengono raggiunte affatto". Se raggiunte in parte il poema si arresta a un certo livello di coscienza, più o meno confusa, e provvisoria, in un particolare ordine di pensiero, in un luogo particolare, in un momento particolare di una particolare età, in una particolare stagione dell'anno. Se non riesce ad attingerle, il discorso è mero conato verso una gnosi inattingibile, moncone che si ferma sul discrimino del silenzio. La Fusini, sensibile all'analogia del pensiero di Stevens con certe filosofie contemporanee afferma nella sua ottima interpretazione di "Note verso la finzione suprema" che qui "all'estremo non si toccherà che l'assenza". Le valenze, dunque, sono quasi costantemente asintotiche. La Verità è un fulgore che acceca. E il discorso è una "estesia" piena, comprendendo pensiero apofantico e trasfigurazione analogica del reale. Si dica, incidentalmente, che un eloquio del genere trova i suoi analoghi nella poesia dei Metafisici inglesi del Seicento, i quali - com'è noto - adoperavano il pensiero filosofico come 'figura del sentire'. Leggiamo queste parole dell'"Angelo necessario": "la poesia è Fantasia della vita. Un componimento poetico è un particolare della vita pensato tanto a lungo che il pensiero diviene una sua parte inseparabile, oppure sentito così intensamente che il sentimento finisce col permearlo tutto". Si ricorderà la famosa definizione eliotiana di 'sensuous thought', che calza a pennello anche per Stevens. Se non che la poesia dei lirici inglesi del Seicento è 'difficile', sì ma riducibile attraverso il recupero dei contesti, e intesti, culti (e davvero non si può concordare col Bacigalupo che attribuisce loro la "capacità di creare un vuoto di senso" - ai Metafisici i cui componimenti sono razionalissime costruzioni paralogiche ed entimematiche, e dove, se mai, di senso ce n'è anche troppo, in pieno accordo col 'terror vacui' del secolo), e la poesia di Stevens è 'oscura' perché il contesto è costituito dall'interiorità non esteriorizzata, e spesso irrecuperabile, dell'artista, nonché dal convincimento dell'insensatezza del mondo ("una poesia - dice il poeta - non è necessario che abbia un significato, e come la maggior parte delle cose in natura spesso non ne ha").
È un grande poeta Wallace Stevens? Lo è senza dubbio per quanto concerne la sua particolare integrazione di pensiero e di senso, per il suo nobile slancio verso le impossibili mete del desiderio, per la gioiosa celebrazione dei poteri trasfigurativi della Fantasia, e per l'eroica sopravvivenza in una situazione esistenziale "de-creata" che finisce col produrre - nell'ultima fase - un'enunciazione estremamente astratta. È, a mio avviso, meno grande quando compone secondo il principio che "la poesia deve resistere all'intelligenza con successo quasi completo", mostrando, con queste parole, di passare dalla dolorosa "insufficienza del dire al programma del non dire" - in altre parole, all'artificio dell'afasia.
All'inizio dell'introduzione Bacigalupo tocca il tema stevensiano della musica: "Nella musica - egli dice - tutto è espresso, e il silenzio non contiene mai un'allusione maliziosa. E questo si può certamente dire della poesia di Stevens, che non lascia nulla di inespresso, non contiene buchi disperati n‚ strizzate d'occhio". E poi: "la poesia di Stevens è musica d'"harmonium" anche se nei suoi modi di significare, o piuttosto di non significare. Come la musica infatti essa non dice proprio nulla!" L'argomento della musica in Stevens sarebbe molto importante - se avessimo tempo per trattarlo -, comunque non ci se ne può sbarazzare con tanta disinvoltura. Cosa intende dire Bacigalupo? Che la musica non dice nulla? Che la poesia di Stevens non dice nulla? Per la questione del rapporto "sensazione e suono" - tema costante della 'musicalità' stevensiana - mi permetto di rimandare al mio saggio "Wallace Stevens. Susanna al lagno" che comparve in "Strumenti critici" ed è ora in "Semiosi", sfuggito - 'absit iniuria' - all'amico Massimo, una interpretazione di "Peter Quince at the clavier", stupendo poema ove si può meditare a lungo sull'idea stevensiana della percezione come musica. E bisognerebbe indugiare ancora su un'altra bellissima lirica, non antologizzata dal Bacigalupo, "Certain phenomena of sound". Non è davvero trascurabile il fatto che la musica sia così frequentemente presente nell'opera del nostro poeta, vuoi come tematica vuoi come articolazione fonica. Talvolta è addirittura dalla connotazione articolatoria che si può risalire al senso. Rischio la vanità, ma questo dimostrai, or son passati molti anni, in "Interpretazione di "Autumn Refrain" di Wallace Stevens" (in Critica della funzionalità). Fra l'altro, e per rimanere in argomento, il "clavier" di Peter Quince, che Bacigalupo, accettando la traduzione di Poggioli, ci fa vedere come "spinetta", non potrebbe, utilmente per il titolo della stessa raccolta, e proprio in rispetto della surricordata intenzione dello Stevens, essere un 'harmonium'? I dizionari inglesi dicono che 'clavier' è "qualsiasi strumento a tastiera".
Infine, cosa che non riguarda Bacigalupo soltanto, ma una pessima abitudine della cultura anglistica italiana: tradurre 'Imagination' con "immaginazione" è cadere in una trappola assonantica e commettere un vistoso errore concettuale. La corrispondente parola italiana di 'Imagination' è "Fantasia" (per la quale Scalvini scriveva nel "Dizionario dei sinonimi" del Tommaseo: "Differisce essa dunque dall'immaginazione e nella maggiore vivezza e nella potenza e fecondità"). Immaginazione - o italiani che studiate il Romanticismo! - è il corrispondente dell'inglese 'Fancy'.

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Wallace Stevens

(Reading, Pennsylvania, 1879 - Hartford, Connecticut, 1955) poeta statunitense. La sua poesia (iniziatasi con Harmonium, 1923) chiede all’immaginazione di scoprire la verità non del mondo ma di se stessa, e rivela una frequentazione estremamente sottile della letteratura e delle arti, in particolare del cubismo: L’uomo dalla chitarra blu (The man with the blue guitar, 1937), per esempio, si rifà a un dipinto di Picasso. Del 1935 è la raccolta Principi di ordine (Ideas of order). Nel 1942 vedono la luce il lungo poemetto filosofico Note per una finzione suprema (Notes toward a supreme fiction) e la raccolta Frammenti del mondo (Parts of the world). Nelle opere successive, Passaggio all’estate (Transport to summer) e Aurore d’autunno (The auroras of autumn) si fa largo l’idea di una composizione...

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