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A una prima lettura Habel potrebbe apparire come un romanzo che vuole raccontare una delle tante storie di emigrazione, con la sua coda di alienazione, miseria, disagio sociale e shock culturale, se è vero che il protagonista è un diciannovenne nordafricano il quale, incoraggiato dal fratello maggiore, lascia la terra madre per raggiungere Parigi, in un viaggio da cui non è previsto il ritorno. Basterebbe però scorrere rapidamente la biografia e la storia artistica del suo autore per farci sorgere subito il sospetto che il libro non sia solo questo. Mohammed Dib è infatti, insieme a Kateb Yacine, il padre del romanzo algerino. Nato a Tlemcen in Algeria nel 1920, fu allievo di Roger Belissand, un noto esponente del partito comunista, proseguì gli studi a Oudja, appena oltre il confine marocchino e, in seguito, all'Università di Algeri, dove studiò lettere. Sin da giovanissimo dovette misurarsi con i lavori più disparati: dal 1938 fu insegnante, nel 1939, con lo scoppio della guerra, lavorò come contabile nel quartier generale militare di Oudja e come interprete per gli eserciti francese e britannico; fu giornalista per il quotidiano progressista "Alger Républicain" e per il comunista "Liberté", ma anche insegnante presso importanti istituzioni come la Sorbonne e l'Università della California.
Ciò che più suggestiona è però il fatto che, quando tornò a Tlemcen nel 1945, lavorò come disegnatore di modelli di tappeti: e si dice questo perché non è difficile immaginare Habel come un complicato intreccio dove una trama e un ordito di carattere mitologico concorrono alla costruzione di un disegno apparentemente tradizionale (e frequentatissimo dai narratori arabi contemporanei), quello, per l'appunto, del romanzo della migrazione. Se vogliamo, sono due i fili che si possono tirare da questa trama, solo per restare al nome del protagonista: a leggere magari la storia entro una prospettiva martirologica, anche se questo è un libro aperto a molteplici letture. Ecco: Habel, anche solo per assonanza, non può non ricondurci a colui che è assunto come prefigurazione del sacrificio di Cristo, e cioè Abele. Habel nella storia non è infatti il più debole, colui che cade e cade per mano del fratello? Sicché è ancora la Bibbia a soccorrerci, forse per il tramite di Moby Dick, quando il protagonista incontrerà il personaggio con il quale vivrà l'umiliazione di un'ambigua storia di prostituzione omosessuale, e a esso si presenterà dicendo: "Il mio nome è Ismaele". Insomma: Habel non è, come Ismaele, un bastardo cacciato in una terra desolata, fra altri miserabili, dove impara a sopravvivere in solitudine, indurito dalla vita? Il secondo filo che possiamo tirare è quello che rimanda invece alla leggenda araba di Majnun e Laila, una storia d'amore che, per certi aspetti, somiglia a quella di Romeo e Giulietta, ma il cui epilogo è costituto dalla pazzia del protagonista (majnun in arabo significa pazzo). E ciò non solo perché habel in arabo significa idiota, stupido, ma anche e soprattutto perché, a Parigi, si innamora di una ragazza di nome Lily (e anche qua è palese l'assonanza con la Laila sopraccitata), per la quale deciderà, alla fine, di compiere una scelta dolorosissima che potrebbe condurlo alla follia. A questo punto ci si potrebbe chiedere che funzione abbia nel romanzo un ricorso così abbondante alla mitologia, un'intertestualità così sfrenata. Tanto più che tali oltranze testuali, unitamente a una tecnica che punta all'alternanza tra una terza persona e una specie di monologo del protagonista rivolto al fratello rimasto in patria, corrono il rischio di disorientare il lettore. Una risposta possiamo trovarla se pensiamo che Mohammed Dib aveva esordito nei primi anni cinquanta gli anni nei quali si attestava con i romanzi di Muloud Feraoun e Mouloud Mammeri un'autentica letteratura algerina, che pure arrivava da una dolorosa riflessione sull'opportunità di utilizzare la lingua del colonizzatore (una lingua nella quale gli autori, come diceva Dib, si sentivano ospiti, non figli) con una serie di romanzi che raccontavano la vita di un popolo il cui unico passato e presente possibili sembravano quelli coloniali.
Pensiamo, ad esempio, a La casa grande (ed. orig. 1952, trad. dal francese di Gaia Amaducci, pp. 168, 10, Epoché, Milano 2004) e L'incendio (ed. orig. 1954, trad. dal francese di Gaia Amaducci, pp. 250, 14, Epoché, Milano 2004), i primi due volumi della trilogia intitolata Algeria, una sorta di lungo romanzo di formazione dove viene narrata la storia dell'Algeria prerivoluzionaria attraverso quella di Omar, un bambino di dieci anni, e di una folla di miserabili che orbita attorno a una casa simile a un alveare chiamata Dar Sbitar.Il tutto narrato, nonostante qualche enfasi, secondo i canoni di un realismo senza distrazioni laddove in Habel invece è tutto così concitato e digressivo per dare voce a una contestazione che è quella dei fellah, dei contadini che si ribellano all'occupazione francese che li affama sino a ridurli ai limiti di un'estrema indigenza.Me pensiamo anche a un libro come Un'estate africana (ed. orig. 1959, trad. dal francese di Maria Abbrescia e Franca Doriguzzi, pp. 164, 11, Aiep, San Marino 2001), scritto nell'anno in cui Dib fu esiliato a causa anche della sua militanza nel Partito comunista francese (solo grazie all'intercessione di Albert Camus e André Malraux poté stabilirsi in Francia, dove visse fino alla sua morte nel 2003), dove percepibili sono i prodromi della successiva guerra di liberazione.
Sarà proprio la guerra per l'indipendenza in Algeria a generare nell'autore un deciso cambiamento di rotta: nella postfazione di Qui se souvient de la mère (1962), che di quella guerra è una grande allegoria, Dib dichiarò infatti la sua abdicazione al realismo. Affascinato dall'arte moderna, si convinse che solo questa potesse rappresentarne fino in fondo l'orrore, così come per esempio in pittura aveva fatto Picasso con Guernica. È da queste premesse che Dib arriva, negli anni settanta, a scrivere un libro come Habel, dove la confusione, il delirio e l'allucinazione diventano gli strumenti essenziali, paradossalmente gli unici, a consentire l'espressione di un disagio assoluto, di un'alienazione totale.
Silvia Lutzoni
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