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La moderna storiografia, a partire da Le Goff, Gurevich e la scuola sovietica, hanno formulato il seguente postulato: "E' impossibile capire e giudicare il passato, se non ci si sfoza di ragionare come gli uomini del passato". La scrittrice è esperta di intelligence service, ma l'intelligence è un'invenzione moderna. Quello che manca all'autrice è una formazione storica che le avrebbe consentito di collocare l'argomento trattato nella sua giusta dimensione. Pretendere che i Romani di venti secoli fa potessero avere una concezione dello spionaggio pari a quella che abbiamo noi, è pretendere l'assurdo. Le defaillance dei romani, non furono dovute alla mancanza di intelligence, ma ad una loro concezione della guerra, profondamente diversa dalla nostra. Non ci dimentichiamo che anche in pieno medioevo spesso si esitava ad attaccare il nemico quando questi era in una condizione di inferiorità, per motivi di 'cavalleria'. I romani avevano una concezione della guerra che gli imponeva di non ricorrere ad astuzie per battere il nemico. Le astuzie erano riservate ai barbari, non ad un popolo che si vantava di avere il favore degli dei. Basti pensare che quando Cesare nelle campagne germaniche attaccò una tribù di germani dopo averne fatto prigionieri i capi, suscitò l'indignazione del senato romano al punto che Catone propose di consegnarlo ai barbari per lavare l'onta subita dal popolo romano. Siamo quindi in un mondo completamente diverso e di questo l'autrice non se ne preoccupa. In fondo è il tipico atteggiamento anglosassone di considerare se stessi come gli unici depositari di una 'verità' pretendendo che chi non fa come loro sbaglia in partenza e per definizione. A parte questo, il libro è abbastanza ben documentato e ricco di notizie storico - militari, decisamente interessanti. Un pò carente la parte dedicata alla disfatta di Varo. Qui l'autrice sembra parlare di un avvenimento privo di ombre, mentre a duemila anni di distanza, non abbiamo ancora le idde chiare su quello che accadde nella famigerata foresta.
Rose Mary Sheldon rappresenta uno dei massimi esperti contemporanei di storia dello spionaggio: colonnello dell'esercito ed allo stesso tempo detentrice di un dottorato in storia antica, dal 2005 dirige il dipartimento di storia del Virgina Military Institute. In virtù della sua duplice qualifica, pertanto, l'autrice risulta perfettamente a proprio agio nello sviscerare un tema complesso ed oscuro come quello della nascita e dello sviluppo dei servizi segreti dell'antica Roma. La Sheldon si dimostra infatti capace di spingersi oltre le conclusioni desumibili da parte del semplice storico, privo di competenze tecniche in ambito militare; ed allo stesso tempo in grado di contestualizzare la propria analisi alla luce di quella circostanziata conoscenza dei caratteri e dei fenomeni del mondo antico che sfugge al puro storico militare, ivi compresa una rigorosa critica delle fonti. Nei primi capitoli il volume traccia il ricorso da parte dei romani alle prime forme di intelligence, rudimentali ed estemporanee, durante il primo periodo repubblicano sino al vero momento di svolta rappresentato dalle guerre puniche. Quindi, con la nascita del principato, e successivamente con la progressiva burocratizzazione dell'impero, l'analisi si amplia al tema della sicurezza e del controllo interni, tracciando l'evoluzione dei frumentarii sino alla costituzione degli agentes in rebus nel III sec. Il tutto, comunque, senza mai trascurare il versante militare: con la trattazione di argomenti fondamentali come i sistemi di sorveglianza delle frontiere, passati in rassegna attraverso una serie di casi-studio tesi alla ricostruzione delle strategie di interdizione e delle forme di comunicazione. Argomenti fondamentali come il coinvolgimento dei civili nelle operazioni di intelligence, le operazioni clandestine e l'utilizzo di codici cifrati non sono del pari trascurati. In conclusione un saggio di estremo interesse, solido, ben documentato ed esauriente. Eccellente la traduzione.
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