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Bellissimo. Oltre ad essere un riconoscimento del puro eroismo di Wallemberg, singolarmente ignorato dalla letteratura sulla Shoà, è un potente affresco della vita in Ungheria prima, durante e dopo la spaventosa invasione tedesca. E naturalmente viene adombrata, nelle ultime cento pagine, l'orrore di quella che sarà l'occupazione sovietica. Terra tormentata, l'Ungheria. E sono gli Ungheresi i protagonisti di questo splendido romanzo: ungheresi che sono anche ebrei, e che non riescono a capire perché non si possa essere l'uno e l'altro contemporaneamente, così come nessuno discute sul fatto che sia possibile essere ungheresi e cattolici. Tutti i protagonisti si salvano, in questo romanzo, salvo uno. Tutti tornano a casa, tutti ricominciano: segnati, provati, a volte distrutti, ma ricomiciano. Straordinariamente efficaci i personaggi di contorno: l'amica cieca di Marta nel campo di sterminio, la sua vicina di casa, sublimamente irriverente, i compagni di Simon nel campo, e perfino il gatto Smetana. Corre per tutto il libro una sorta di sinfonia, che i frequenti richiami musicali, poetici ed artistici non fanno che accentuare. Wallemberg è un figura titanica, ma di un modesto e schivo titanismo: in qualche modo, parafrasando la Arendt, rapprenta "la banalità del bene": il suo scomperire, con ogni probabilità, nel gelo siberiano, racconta di altri orrori: come se il male cambiasse nome, ma non faccia. Splendida, inoltre, la foto di copertina. Credo sia di un italiano: meravigliosa. Leggetelo e regalatelo: è un libro che va diffuso.
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