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2
1991
19 gennaio 1991
224 p.
9788842037132

Voce della critica

NATOLI, ALDO, Antigone e il prigioniero. Tania Schucht lotta per la vita di Gramsci

FIORI, GIUSEPPE, Gramsci Togliatti Stalin
recensione di Bongiovanni, B., L'Indice 1991, n. 1

"Voi state distruggendo l'opera vostra", scrive Antonio Gramsci nella lettera del 14 ottobre 1926 al Comitato centrale del Pcus. Il comunista sardo ritiene sì fondamentalmente giuste le tesi di Bucharin, ma il metodo brutale di condurre la lotta politica che è proprio di Stalin, allora ancora alleato di Bucharin, lo inquieta e gli fa mettere nero su bianco parole che poi gli saranno a più riprese rinfacciate (la lettera verrà pubblicata da Tasca nel 1937): si sta distruggendo l'unità del partito bolscevico, si usa ogni mezzo per screditare Zinov'ev Kamenev e Trockij, "i nostri maestri", si sottovaluta pericolosamente il contraccolpo che può subire il proletariato internazionale. Quattro giorni più tardi, tra l'altro, Max Eastman pubblica sul "New York Times" il celeberrimo testamento di Lenin.
L'8 novembre successivo, Gramsci, che pure dovrebbe godere dell'immunità parlamentare, viene arrestato. Il contenuto della lettera-documento continua tuttavia a produrre effetti: rende soprattutto sospetto di criptotrockismo non solo Gramsci, ma tutto il partito comunista d'Italia. Togliatti s'incarica di ricucire febbrilmente la situazione, spiegando che il partito, "bolscevizzato" proprio da Gramsci, è stato praticamente rifondato a Lione e che le tesi di Roma sono state con decisione abbandonate. Non basterà, com'è noto. Nell'Urss e nell'Internazionale stava accadendo qualcosa che pochissimi allora erano in grado di decifrare compiutamente: anche il partito di Lione, il partito del 1926, aveva i giorni contati. È in questo clima che a Scoccimarro Terracini e Gramsci, mentre attendono di essere processati, viene inviata la "famigerata" lettera di Ruggero Grieco datata 10 febbraio 1928, una lettera che ha fatto discutere molto gli storici in questi ultimi anni e che costituisce, in qualche misura, l'ineludibile punto di partenza dei libro di Aldo Natoli e di quello di Giuseppe Fiori. Vediamo rapidamente come andarono le cose.
Scoccimarro non ricevette neppure la lettera di Grieco, trattenuta verosimilmente dalla censura del carcere, Terracini la ricevette e non dovette farci un gran caso, tanto è vero che confessò in una lettera del 1968 a Paolo Spriano di avere dimenticato "quell'episodio epistolare": a Gramsci venne personalmente consegnata da Enrico Macis, il magistrato militare che a Milano, su incarico del Tribunale speciale, aveva riaperto l'istruttoria. Quell'incontro segn• gli anni di prigionia di Gramsci. In una lettera a Tatiana Schucht del 5 dicembre 1932, che Natoli non esita a definire terribile, Gramsci, sentendosi isolato dalla famiglia e ancor più dal partito, ricorderà alla cognata, trascurando la prudenza che doveva essere osservata nei confronti della censura carceraria, le parole del giudice che da anni lo tormentavano: "onorevole Gramsci, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga in galera". Questa lettera, insieme a moltissime altre e a molti brani soppressi, non comparirà nell'edizione einaudiana delle "Lettere dal carcere" del 1947: sarà resa nota nella nuova edizione del 1965, riveduta e integrata sugli autografi, a cura di Sergio Caprioglio ed Elsa Fubini.
Quale significato aveva dunque la lettera di Grieco del 1928? Ai tre compagni e in particolare a Gramsci - anche se fu Terracini ad avere la condanna più pesante in ragione della strepitosa autodifesa che seppe pronunciare -veniva in pratica riconosciuto indirettamente un ruolo preminente e dirigente nel PCd'I, mentre la linea di condotta della difesa - oggettivamente quanto credibile? - mirava a minimizzare l'importanza dei tre militanti. Gramsci dovette in un primo momento scorgere nella lettera un errore grossolano e una leggerezza imperdonabile. Nulla di più. In seguito pensò di essere stato scientemente tradito. E non dal solo Grieco, un ex bordighiano che si poteva pensare particolarmente zelante nel tentativo di farsi perdonare la non lontana appartenenza alla frazione sconfitta, ma anche da Togliatti e Stalin. Paolo Spriano, nel libro "Gramsci in carcere e il partito" (Editori Riuniti, 1977) e in altri scritti, ha, con molta cautela, in qualche modo messo in luce, sul terreno storiografico, i tremendi sospetti dello stesso Gramsci. Luciano Canfora, con un libro molto discusso, "Togliatti e i dilemmi della politica" (Laterza, 1989), ha cercato di dimostrare, "con una strumentazione filologica di qualche fascino" (l'espressione è di Giuseppe Fiori) e con tutte le risorse di una lussureggiante applicazione del paradigma indiziario, che la lettera di Grieco è un falso, neanche troppo ben eseguito, messo in opera dall'Ovra e dal regime fascista al fine di convincere la Santa Sede che, data la pericolosità dei tre, non era il caso di promuovere una pratica di scambio con dei sacerdoti cattolici reclusi nell'Urss. Canfora, volendo con fervore salvaguardare la moralità politica del gruppo dirigente del PCd'I, ha estremizzato in realtà tutto il dibattito: egli, infatti, come lo stesso Gramsci, ha ritenuto la lettera un fatto gravissimo e risolutivo, bollandola come provocazione fascista. 'Tertium non datur', però. Se la sua pur abile costruzione filologica non regge, se la lettera di Grieco è vera, dal suo stesso punto di vista non resta che prendere atto della volontà di Togliatti di tenere Gramsci in galera il più possibile onde avere mano libera nella direzione del partito.
Aldo Natoli propende invece per la leggerezza di Grieco morto nel l 955, prima della pubblicazione della lettera di Gramsci a Tatiana. Giuseppe Fiori, a sua volta, con un argomento alquanto persuasivo, ricostruisce con efficacia la figura di Enrico Macis, un giudice molto abile, sardo come Gramsci, e congettura che il magistrato seppe, forte anche della conoscenza della psicologia dei sardi, insinuare nel carattere ombroso del conterraneo il terribile sospetto del tradimento. Tutta l'ultima parte del libro di Fiori disegna del resto l'ambiente sardo di Gramsci e ricostruisce, con una ricerca originale, le opinioni del dirigente comunista sulla questione sarda e sulle opzioni politiche del federalismo isolano. Fiori ricorda inoltre opportunamente che non era un segreto per nessuno, tantomeno per la polizia fascista, la preminenza di Gramsci nel PCd'I (a partire almeno dal congresso di Lione, ma già da prima): Togliatti stesso lo aveva scritto sullo "Stato operaio" ben prima della lettera di Grieco, in un testo che verrà ripubblicato in seguito ("Antonio Gramsci, un capo della classe operaia") senza mai suscitare scandalo. Gramsci, tuttavia, pur non avendo la precoce lucidità di Tasca - il quale seppe comprendere sin dal 1929 che Stalin non era "un compagno che sbagliava", di sinistra o di destra, ma rappresentava qualcosa di mostruosamente estraneo alle tradizioni del movimento operaio e socialista - non accettò nŠ punto n‚ poco la "svolta", la teoria del socialfascismo, il dogma dell'imminente rivoluzione proletaria. Approfondì anzi la convinzione, maturata sin dalla crisi dopo il delitto Matteotti, della necessità, a fascismo caduto, di un'Assemblea costituente tra tutte le forze antifasciste. In ragione di questa coerenza subì in carcere un crudele isolamento e pesanti umiliazioni. Tra il 1930 e il 1933 si sentì abbandonato dal partito ed è ben difficile esprimere un giudizio sui suoi sentimenti nei confronti dell'Internazionale e dell'Urss nel periodo tra il 1934 ed il 1937. Sapremo mai fino in fondo il contenuto delle sue conversazioni con Sraffa? Sospettò che anche la moglie, gravemente malata di nervi, l'avesse abbandonato su istigazione della sorella Eugenia, bolscevica fervente e sostenitrice della linea del partito. È ben comprensibile che abbia a lungo rimuginato sulle parole del giudice Macis, encomiato dal regime per i servigi resi alla "Causa Nazionale", ed abbia pensato, nei momenti di sconforto, alla lettera di Grieco, un "disastro", come ebbe a scrivere Piero Sraffa in una lettera a Spriano del 1969. Ciò che Gramsci ha dovute subire in carcere dai compagni è molto peggio del "disastro" o dell'ipotizzato e quasi certamente inesistente tradimento di Grieco.
Fiori, tuttavia, ci tiene a sottolineare che Togliatti, nell'arco degli anni trenta, quando il PCd'I ebbe a trasformarsi in un gruppuscolo settario stalinizzato, riuscì a trattenere nel codice genetico del partito, in cauta opposizione ai "duri" come Berti e lo stesso Grieco, la memoria viva della presenza e dell'insegnamento di Gramsci, carta teorica e politica che poteva essere giocata e spesa quando l'età delle tirannie avesse varcato la mezzanotte del secolo e quando uno spiraglio si fosse aperto negli anni bui del totalitarismo staliniano. Gramsci come ruota di scorta di gran classe, insomma. E in effetti l'appuntamento con la storia non fu mancato: fu però il grande movimento popolare scaturito dalla Resistenza a imporre alla sapiente codificazione politica togliattiana il "partito nuovo" e a ridare credibilità a uno sparuto gruppo dirigente su cui scese, come lo Spirito Santo, la grazia dell'eroismo di Stalingrado e dei partigiani d'Italia e d'Europa. Il pensiero di Gramsci poteva così uscire dalle catacombe e vivificare tutto il dibattito culturale e politico del dopoguerra: in dieci anni - dal 1937 al 1947 - si crearono cioè le condizioni per trasformare la leggenda agiografica del martire mummificato in storia e in riflessione sulla storia.
Il bel libro di Natoli si sofferma invece su Tatiana (Tania) Schucht ed ha come fonte il carteggio tra i due cognati, sinora utilizzato sui due versanti solo da Adele Cambria in "Amore come rivoluzione" (Sugar, 1976). Si può rimpiangere che in appendice siano raccolte solo 33 lettere invece lei corpus di 652 tra lettere e cartoline depositate all'archivio del Pci. Natoli, però, con commossa partecipazione, ci mostra questa donna estranea al bolscevismo, sicuramente in contatto non solo con Sraffa, ma anche con il partito, slanciarsi in una devozione senza limiti, sollecitare l'attività letteraria del prigioniero, proteggerlo dalle insidie del mondo esterno tacere umiliata e mai offesa davanti alle rudezze e agli impropri di un uomo orgoglioso e sospettoso. Tania difende non solo la povera vita di Nino, ma anche, dopo la morte, il suo lascito, le sue idee. È un vero peccato, inoltre, che Pierangelo Garegnani, esecutore letterario di Sraffa, abbia bloccato la pubblicazione del carteggio tra Tania e Sraffa curato per gli Editori Riuniti da Gerratana. L'epistolario tra Antigone e il professore e il libro di Natoli saprebbero illuminarsi a vicenda. Il personaggio di Tania, tuttavia, dalle pagine di Natoli esce limpido e intatto: ha sicuramente avuto un incarico dal PCd'I e dall'Internazionale, ma non ha mai tradito Nino, rispettandone anzi l'irriducibile autonomia culturale e la singolare e difficile fisionomia psicologica. Il lettore saprà seguire nel libro di Natoli e anche in quello di Fiori, la parabola umana di Tania, il suo radicamento in Italia, la sua amicizia con il cognato, che senza di lei forse non avrebbe trovato le energie per lasciarci un monumento delle dimensioni che sappiamo. Tania ha fatto il più straordinario, innocente e soccorrevole doppio gioco della storia culturale del XX secolo. È la sua fragile e indomita presenza che, assai più di Togliatti, ha permesso alle idee di Nino di superare di slancio gli anni dell'hitlero-stalinismo. Il centenario gramsciano esiste anche perché è esistito il "fanatismo romantico" di una donna che, come Antigone, ha anteposto la legge divina dell'amore alle leggi umane, troppo umane dei partiti, degli stati, delle fosche ideologie totalitarie. Grazie Tanicka.

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Giuseppe Fiori

(Silanus, Nuoro, 1923 - Roma 2003) giornalista e biografo italiano. A un’intensa attività giornalistica in televisione (e di televisione si è occupato anche in sede parlamentare) ha affiancato una nutrita produzione di inchieste e biografie. Tra queste ultime si ricordano quelle di A. Gramsci (1966), dell’anarchico Michele Schirru (1983), di E. Lussu (1985), di E. Berlinguer (1989), di S. Berlusconi (Il venditore, 1995), di Ernesto Rossi (1997). Del 1993 è Uomini ex, romanzo-inchiesta su un gruppo di partigiani rifugiatisi a Praga dopo la guerra per sfuggire alla giustizia italiana.

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