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La grammatica dell'attore
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3
1998
3 aprile 1998
180 p., ill.
9788877481955

Voce della critica


recensione di Taviani, F., L'Indice 1998, n. 9

Questo libro sorprende non appena ci si accorge dello strano modo in cui è composto. Pubblicato nella collana intitolata, con ironia, "i manuali ubulibri", mostra una tensione alla dimensione autobiografica che del manuale non ha nulla. Comprende circa 150 esercizi, che assomigliano spesso a giochi e hanno tutti il pregio di essere semplici, pur toccando molti centri nevralgici dell'esperienza dell'attore. È molto, se si pensa a quante illusioni e ciarlatanerie crescano all'ombra di seminari e atelier. Gli attori guidati da Alschitz, per esempio, girano o corrono liberamente nella sala. Ciascuno sceglie mentalmente un partner e - senza parlare e senza segni espliciti - si accorda con lui/lei, sicché a un segnale del regista-insegnante l'intero gruppo possa costituirsi in coppie, e ci si renda conto se tutte le scelte mute - sguardi e microsegni - hanno funzionato. Oppure: l'attore/attrice sceglie, nella sala, gli oggetti dai colori che più gli piacciono. Ordina mentalmente i diversi colori in una scala dal più vivido al più opaco. Ripercorre più volte la scala cercando gli oggetti con lo sguardo. Ripete l'esercizio a occhi chiusi.
Questi esercizi vanno visti nel loro complesso, e allora si renderà giustizia alla loro qualità. Ma l'insieme delle istruzioni, ampio variegato e pronto per l'uso, viene continuamente inframmezzato da pagine di diario o di taccuino, da brevi meditazioni sulla natura della professione teatrale, da ricordi e introspezioni dell'autore, che, per esempio, dopo la descrizione di un esercizio sul "cambiamento di velocità e di partner", annota: "Il mio primo ruolo è stato quello di un soldato tedesco ucciso dai partigiani sovietici proprio al primo minuto dello spettacolo (...) Il mio primo maestro. La mia prima moglie. Il mio primo figlio. E ora - il mio primo non-libro. È tutto. Non aspetto più niente di 'primo' nella mia vita. L'ultimo amico, l'ultimo spettacolo, l'ultimo amore... cos'altro aspettare?".
Che cosa ha spinto materiali tanto eterogenei, didattici e personalissimi, a giustapporsi come per un'eco naturale? Tentare di rispondere aiuta a farsi un'idea della sorprendente natura degli esercizi teatrali.
Storicamente, l'esistenza stessa degli esercizi teatrali è una stranezza, incomprensibile fuori dal contesto della rivoluzione scenica che ha avuto inizio nei primi del Novecento. È merito di Eugenio Barba l'aver recentemente richiamato l'attenzione su tale "stranezza", ponendo le premesse per storicizzarla, in un capitolo di "La canoa di carta" (il Mulino, 19972) e in un saggio dal titolo "Un amuleto fatto di memoria", compreso nella miscellanea sulla "Drammaturgia dell'attore" curata da Marco De Marinis (I quaderni del Battello Ebbro, 1997). La novità novecentesca degli esercizi teatrali sta infatti in un paradosso, perché essi in realtà non "insegnano", non si configurano come esercitazioni per acquisire uno stile predeterminato, ma sono un distillato di ciò che, secondo i diversi maestri, sta alla base dei multiformi stili, un analogo delle basi pre-espressive del mestiere, o il correlato oggettivo d'un modo di vivere il teatro. Più sono tecnici, più la loro tecnica diventa, perciò, la maschera sottile d'una biografia artistica.
Il libro di Alschitz, per i suoi pregi e nei suoi limiti, ne è la dimostrazione, con la sua necessità d'inframmezzare gli opposti, materiali didattici e pagine di diario e di taccuino.
Jurij Alschitz è attore-regista, a lungo collaboratore con Anatolij Vasil'ev alla Scuola d'arte drammatica di Mosca. Nello spettacolo che (purtroppo prematuramente) fece esplodere la fama di Vasil'ev in Occidente - un'intensa variazione sui "Sei personaggi" di Pirandello - faceva la parte del Capocomico. A quella parte egli si riferisce più volte, come al punto di partenza della sua riflessione sull'indole e le contraddizioni del mestiere d'attore. Ora si dedica quasi esclusivamente alla pedagogia teatrale: a Berlino, a Stoccolma, a Roma (dove collabora con il giovane regista e studioso di teatro Alessio Bergamo), a Milano (presso la Civica scuola d'arte drammatica). Parte da un punto fermo: l'attore va considerato un creatore, un "autore", non colui che esegue o realizza progetti altrui. Gli esercizi servono quindi a fondare l'ambito della sua autonomia creativa.
Il titolo del libro dice "grammatica". Adopera il termine in un'accezione debole, giusto per indicare non tanto un sapere, quanto una pratica elementare di base. Perché nella realtà non esiste alcunché di simile alla grammatica, per un attore-danzatore, neppure se appartiene a una delle tradizioni fortemente convenzionali o cosiddette "codificate", teatri classici asiatici o clown, balletto o mimo di Decroux. Figuriamoci per l'attore al quale fa scuola Jurij Alschitz, che sarebbe quello del teatro "normale". Ma "far come se ci fosse" una grammatica, per un attore può essere un modo molto fruttuoso di ragionare con se stesso, componendo elementi, coniugandoli in maniera sempre diversa, scoprendo come variarli, contraddirli, improvvisare, costruendosi cioè un personalissimo repertorio di nessi o soluzioni di partenza che lo liberi dall'ossessione di "inventare", o di "interpretare" qualcosa di previo: il "personaggio" o il "significato "dell'azione. Personaggio o significato, anche quando sembrano definiti fin dall'inizio, non sono buoni per orientare il processo di lavoro, che s'incamminerebbe lungo la smorta e noiosissima via della pre-visione. Debbono dunque venire riscoperti come punti di arrivo.
Ciò che il libro di Alschitz fa è quindi l'esatto contrario del tentativo di circoscrivere un sapere di base. È semmai l'immagine dei sentieri e delle sinapsi attraverso cui può formarsi una "mente teatrale". Leggerlo come se fosse un vero e proprio manuale sarebbe sprecarlo.
Mi spiego. Benché un libro d'esercizi per gli attori possa formalmente somigliare a qualsiasi altra raccolta per l'esercitazione - ginnica o per il parto indolore, per la lettura veloce o l'uso del computer - in realtà è tutt'altro. Perché gli esercizi teatrali non insegnano a far nulla di utilizzabile. Ma a forza di fare - quando funzionano - inducono un efficace modo di pensare. Il loro scopo non è fornire abilità, ma - per dirla all'antica - "immergere tutta la mente ne' sensi", compreso il sesto, il cenestesico. Possono essere "di diverso tipo, semplici o complessi, non ha importanza. L'importante è che funzionino come trappole", e cioè che catturino la mente dell'attore in una sorta di secondo sistema nervoso, creato ad arte, i nervi e i muscoli del mestiere. La chiamerei una "fantasia che non si rompe", che non salta da un pensiero all'altro, da un'immagine all'altra, che non corre di distrazione in distrazione, come avviene nel fantasticare quotidiano. La capacità di tenersi tenacemente, perfino ingenuamente o "per gioco", a un filo continuo dell'azione fisica e mentale è una delle condizioni preliminari di ciò che si intende con "creatività scenica".
Inoltre: se lo scopo degli esercizi per gli attori davvero consiste - rubando quella frase a Vico - nell'"immergere tutta la mente ne' sensi", vuol dire che la loro paradossale natura è di servire solo dopo esser stati dimenticati. La loro efficacia si rivela nel momento in cui sono incorporati, quasi innestati nei muscoli e nei nervi, quando cioè sono esperienza fisica. Hanno bisogno, per ciò, di molto tempo. Apprendere a eseguirli in maniera corretta e fluida è solo il primo passo. Di per sé non conta nulla. Conta poi arrivare a muoversi al loro interno senza più pensarli. I tempi brevi che spesso caratterizzano i "seminari" di lavoro pratico, a causa dell'accelerazione dell'esperienza imposta dalla situazione, spesso distruggono, con la mano presciolosa, ciò che l'altra mano, esperta e paziente, tenta di trasmettere.
Una raccolta d'esercizi sembra sollecitare l'attore a far da sé. Ma è poco più di un'utile illusione. Non tanto e non solo perché c'è a lungo bisogno del controllo esterno dell'insegnante-regista, ma perché la sua presenza funziona, a ben guardare, a rovescio di come pare. L'insegnante-regista - è questa l'espressione che Alschitz costantemente usa - sembra che sia lì per trasmettere la corretta esecuzione degli esercizi. Ma in realtà sono gli esercizi che stanno lì per permettere la presenza attiva dell'insegnante-regista. O per lo meno le due ragioni hanno equivalente rilevanza.
Ciò che davvero dà qualche possibilità all'attore di imparare è il fatto di confrontarsi lungamente con uno spettatore-arbitro, capace di intervenire e di lavorare sull'efficacia della sua (dell'attore) presenza scenica. Il confronto continuato con uno spettatore esigente, cui si riconosce autorità, esperto nel guardare, che non lavora per la prova dello spettacolo, ma per mettere l'attore in grado di trovare le proprie basi di mestiere, è la vera ricchezza della pedagogia teatrale. Mejerchol'd, forse il più grande regista del Novecento, fin dagli inizi del secolo definiva il valore della precisione tecnica, esercizi o partitura scenica, non in termini di poetica, né di semplice didattica, ma come risposta all'esigenza pratica dell'interazione: la costruzione di un terreno comune ad attore e regista, in cui i due possano operare assieme, condividendo una lingua e una pratica di lavoro. Il valore, cioè, non sta tanto in ciò che si insegna, ma nella creazione di una situazione in cui sia possibile, per vie imprevedibili, "imparare". E poiché le due cose non sono interdipendenti, i diversi "metodi", non sono intrinsecamente più efficaci delle superstizioni.
Per tutto ciò mi parrebbe ozioso, prima ancora che sproporzionato, discettare su un preteso metodo Alschitz. Più utile è osservare quale tipo o livello di training egli proponga. Lo chiamerei training al grado zero, quell'insieme di esercizi, cioè, che hanno lo scopo di far sperimentare all'attore le proprie potenzialità, le condizioni preliminari al lavoro creativo, di fargli assaggiare, per così dire, il proprio corpo-mente dall'interno. Appartengono a questo grado zero del training, fra gli esempi illustri, gli esercizi raccolti da Mel Gordon ("The Stanislavsky technique", tradotto in italiano presso Marsilio nel 1992 con il titolo improprio "Il sistema di Stanislavskij"), o gli esercizi coniati da Michail Cechov, pubblicati negli Stati Uniti nel 1953 con titolo "To the Actor" ("All'attore.Sulla tecnica della recitazione", Ponte alle Grazie, 1984, nella collana "La Casa Usher").
A un superiore livello di complessità troviamo gli esercizi di Mejerchol'd, vere e proprie microcoreografie tecniche tramandabili dall'una all'altra generazione, che conservano incastonato nel loro stratificato disegno quell'"amuleto fatto di memoria" cui s'è accennato all'inizio: una sorta di pietra di paragone per chi si accanisce a voler scrutare i princìpi dell'azione efficace dell'attore.
C'è poi un terzo livello, il punto più avanzato, per ora, della linea di ricerca iniziata da Stanislavskij e Mejerchol'd, un livello in cui gli esercizi non stanno più ognuno per suo conto, ma si uniscono in un flusso continuo, come una danza sempre variata del pensiero-in-azione dell'attore, qualcosa che confina con l'improvvisazione, pur partendo dal suo rovescio. È quanto hanno "scoperto", dalla metà degli anni sessanta, attori e attrici come Ryszard Cieslak, Iben Nagel Rasmussen, Rena Mirecka, Else Marie Laukvik, lavorando in simbiosi con Jerzy Grotowski o Eugenio Barba.
Questi diversi livelli di complessità del training dell'attore non si eliminano a vicenda. Non si superano. Debbono coesistere. Il grado zero non può essere eluso. Nella pratica artistica è essenziale trovare sempre nuovi modi per ricominciare da capo. Per questo, un libro come quello di Alschitz è utile e necessario. Ma mi sentirei un ipocrita se nel dire questo nascondessi un timore: che il ricominciare da capo possa collaborare con la voglia di limitarsi sempre ai primi passi, di eludere il più difficile, di accontentarsi di quel che "basta", offrendo alibi a quella perdita di voracità artistica che, a ondate ricorrenti, sminuisce la vocazione teatrale.

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