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Descrizione


Giaime Pintor (1919-1943) è stato uno dei critici letterari più famosi della sua generazione, autore di saggi, amico di Pavese, Ginzburg e Vittorini, traduttore dal tedesco e germanista. Come ufficiale fa parte della commissione d'armistizio con la Francia. Dopo l'8 settembre 1943 si reca prima a Brindisi poi a Napoli, dove collabora con gli Alleati creando un Centro Propaganda; quindi cerca di varcare le linee e raggiungere Roma a capo di un piccolo nucleo di partigiani. In questo tentativo, il primo dicembre 1943, muore a Castelnuovo al Volturno mentre attraversa un campo minato. I sette saggi che compongono il volume si occupano di Giaime Pintor come personaggio storico, del saggista, del critico letterario, del germanista.
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Dettagli

2005
1 marzo 2005
365 p., Brossura
9788872854006

Voce della critica

"Capisci che non è tanto inquadrabile", sbotta a un tratto Luigi Pintor, e pare di vederlo allargare le braccia, mentre a distanza di cinquant'anni cerca di raccontare alla giovane intervistatrice che cos'è stato suo fratello. In effetti la personalità e la vicenda di Giaime Pintor (1919-1943), antifascista e critico letterario, mettono a dura prova il modo corrente di intendere l'antifascismo e la critica letteraria. Che peraltro potrebbero parer cose piuttosto lontane tra loro: ma in questo caso si tengono insieme.
Il ricco volume dedicato a Giaime Pintor e la sua generazione raccoglie quattro saggi storici (Pasquale Santomassimo, Maria Cecilia Calabri, Angelo d'Orsi, Luca La Rovere) e tre letterari (Hermann Dorowin, Giorgio Falaschi, Isabella Nardi), corredati in appendice da dodici conversazioni con amici e familiari di Giaime (da Norberto Bobbio ad Aldo Natoli, da Luigi Pintor a Edgardo Sogno): saggi e conversazioni che dialogano tra loro, si integrano a vicenda, talvolta si contraddicono. E proprio per questo riescono a restituire il contraddittorio profilo di un giovane passato alla storia, nell'immediato dopoguerra, come antifascista, comunista, eroe della Resistenza e modello di un'intera generazione, ma che prima dell'8 settembre aveva goduto di buone entrature politiche nell'élite culturale fascista, aveva scritto sul "Primato" di Bottai, partecipato ai Littoriali e ancora nel '42 aveva assistito, in veste ufficiosa se non ufficiale, al congresso degli scrittori nazisti di Weimar. Non fosse un termine in sospetto d'eresia, si direbbe che si compie qui una revisione: un'onesta e necessaria revisione, quasi tutta interna alla cultura di sinistra, dell'immagine tràdita e tradíta di Giaime Pintor, che del resto è già stata sottoposta a svariati ritocchi e restauri, almeno a partire dalla pubblicazione del Doppio diario a cura di Mirella Serri (Einaudi, 1978) e dalla lacerante recensione che ne fece Franco Fortini ("Quaderni piacentini", 1979, n. 71).
Cominciamo dall'antifascista e dalla sua vicenda biografica, recentemente ricostruita da Calabri nel volume Il costante piacere di vivere , in pubblicazione presso Nino Aragno. Nell'assai ben documentata anticipazione che qui se ne dà (segnalo una sola svista, laddove a p. 173 Alfred Döblin e Hans Carossa vengono citati come "autori chiaramente nazisti", cosa che chiaramente non furono) si chiarisce una volta per tutte che Pintor comunista non lo fu mai e che il suo antifascismo, almeno fino allo scoppio della guerra, fu "carsico" (una forma di insofferenza formale più che di consapevolezza politica), ma che d'altra parte sarebbe ingeneroso spingersi a supporre una sua simpatia per il nazismo, come farebbe Serri in Il breve viaggio. Giaime Pintor nella Weimar nazista (Marsilio, 2002). In che modo vanno letti, allora, i suoi rapporti con il fascismo?
Il volume propone tre ipotesi. Santomassimo tenta di seguire l'itinerario politico-intellettuale di Pintor sulla mappa delle più comuni esperienze della sua generazione: dall'antifascismo aristocratico al fascismo di sinistra, da Giustizia e Libertà al postfascismo teorizzato da Felice Balbo. Proprio su quest'ultima categoria si sofferma La Rovere, sottolineando un ovvio ma decisivo elemento biografico: per chi, come Pintor, nato nel 1919, era vissuto da sempre sotto il regime, un antifascismo che come quello crociano o quello comunista si presentasse come negazione del fascismo non poteva che avere scarso appeal ; per questo la posizione definita da Balbo "postfascista" costituiva "l'espressione di una tenace e forse ingenua onestà esistenziale e, allo stesso tempo, un espediente per salvaguardare la continuità della propria vicenda biografica in una fase di profondo sconvolgimento dei paradigmi di riferimento etico-politici".
Ancora più audace e suggestivo è l'intervento di d'Orsi, che attraverso il paragone con il più anziano Leone Ginzburg e con altri coetanei, rende ben evidenti i limiti e i meriti dell'esperienza di Pintor: se da una parte egli non possiede la coscienza di un Ginzburg, che sacrifica prima la libera docenza quindi la libertà e la vita all'imperativo politico e morale dell'antifascismo, dall'altra subito dopo l'8 settembre abbandona l'esercito per unirsi alla Resistenza, e con questo "la sua scelta fu fatta, a differenza di un Pavese, di un Cajumi, di un Bobbio, dello stesso Carlo Levi, pure decisamente antifascista da sempre". Si tocca qui il nodo problematico dello statuto degli intellettuali e del loro rapporto con il potere: gli intellettuali della generazione di Pintor - osserva d'Orsi - erano "accomunati tutti dal bisogno di fare cultura, prima di tutto, e solo raramente [erano] pronti a rischiare un ruolo sociale a cui ambivano e che certo meritavano". L'anteporre il lavoro culturale all'azione politica, spesso considerata uno sporcarsi le mani, era caratteristico di un ceto che si sentiva al riparo dalle vicissitudini della storia, e poteva ostentare, come Pintor faceva, un "suo modo di stare al di sopra della vita quotidiana" (Natoli), uno "spirito azegliano" (Sogno), uno "snobismo da intellettuale" (Bobbio). Questa ambiguità del "ceto di potere e di opposizione" non viene meno con la fine del ventennio: ancora nel 1979 Fortini attacca provocatoriamente "quelli della razza di Giáime Pintor" come i suoi "veri avversari", perché non avevano saputo o voluto rinnegare la propria appartenenza a un ambiente sociale "i cui modelli (di spregiudicatezza, realismo politico, senso del potere e dei rapporti di forza ecc.) erano nelle grandi borghesie europee conservatrici e reazionarie". E tuttavia quando, come nel caso di Pintor (e di Fortini, in questo a lui assai affine), l'ambiguità viene riconosciuta ed esplicitata, il "ceto di potere e di opposizione" esprime il meglio di sé: esplora i propri limiti, si porta in un tale stato di tensione che il suo lavoro culturale può a ogni istante trasmutare in militanza.
Proprio questo è l'itinerario del Pintor saggista e collaboratore einaudiano. Rileggendo con Dorowin gli scritti germanistici raccolti in Il sangue d'Europa (Einaudi, 1950) si rimane ancor oggi stupefatti dall'assoluta disinvoltura di un venti-ventiquattrenne che già si sente parte pienamente attiva e responsabile del sistema culturale italiano: Pintor non esita a stroncare senza appello scrittori affermati (i poeti del nazismo, e dopo lunga esitazione anche l'amato Ernst Jünger), riconosce con sicurezza testi di interesse documentario ( I Proscritti di von Salomon) o portatori di un nuovo paradigma letterario ( Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque), non si sente tenuto alla reverenza nei confronti dei classici (come il Werther ) e dà prova di saper distinguere, più finemente di quanto avrebbe fatto pochi anni dopo Lukács nella Distruzione della ragione , i "frutti buoni" del romanticismo da quelli velenosi, recuperando Kleist, Nietzsche, Rilke. A evitare la tentazione, piuttosto forte, di interpretare Pintor con il senno di poi, mettendo tra parentesi il lungo travaglio della cultura italiana dal dopoguerra fino all'89 per farne un precursore del nostro tempo post ideologico in cui Nietzsche convive pacificamente con Benjamin, Dorowin si attiene saldamente al paradigma di un Pintor illuminista. Risulta così ancora una volta che la sua posizione antiideologica, la sua reticenza a confrontarsi con la società di massa e la sua vicinanza, per questo motivo, più all'azionismo che al comunismo hanno le loro radici in un'educazione liberale, risorgimentale, comunque elitaria e proveniente dal passato piuttosto che proiettata nel futuro. La cultura di Pintor, che abbraccia Nietzsche, Rilke, Jünger e von Salomon ma esclude Kafka, Brecht, Döblin, Musil, Roth e Kraus, è la cultura egemonica negli anni trenta: la sua eccezionalità sta nello sforzo di trascenderla, salvando ciò che in essa era salvabile o, come lui scriveva, "utile".
Analogamente, e in anticipo di parecchi anni su un percorso comune a molti intellettuali nel dopoguerra, Pintor, che pure si era incluso in una "generazione senza maestri" si affranca gradualmente da un maestro grande e scomodo: Benedetto Croce. Lo fa in letteratura, come mostra molto chiaramente Nardi, individuando una linea non crociana che va da Jahier a Vittorini; lo fa in filosofia, contaminando lo storicismo crociano con fermenti vicini al vitalismo di Ortega y Gasset e ancor più all'esistenzialismo di Sartre; lo fa in politica, abbandonando l'antifascismo formale dei vecchi liberali (stigmatizzato in una celebre pagina del Doppio diario ) per prendere parte alla guerra partigiana. Superato in questo modo Croce, Pintor resta davvero "senza maestri", e nella necessità di costruire in proprio dei punti di riferimento per sé e per la sua generazione.
In questa svolta, che si compie nell'arco di un triennio, dal '40 al '43, va forse rintracciata l'origine e il definirsi del suo modo di intendere il lavoro culturale: le recensioni insofferenti, il "saper gridare" contro le opinioni letterarie correnti, la predilezione - ben evidenziata da Falaschi - per il saggio inteso come "forma d'intervento militante" e per una linea editoriale basata su "volumi brevi, di forte impatto formativo". Prima di diventare lotta partigiana, la militanza è intesa da Pintor come lavoro di selezione, rigoroso e tutt'altro che indolore, delle acquisizioni più feconde e immediatamente utilizzabili della cultura europea in decadenza.
Lo si vede bene nelle sue proposte editoriali per Einaudi: dopo la traduzione di una scelta molto personale di poesie rilkiane e la riproposta del Saggio sulla Rivoluzione di Carlo Pisacane (nella cui introduzione si cita Marx come termine positivo) è la volta delle Considerazioni sulla storia di Nietzsche. Pintor usa Nietzsche per colpire una certa accezione di storicismo, allora dominante nella cultura italiana, che a suo parere si risolveva in "ossequio e passività di fronte a ogni 'potenza storica'"; a questo scopo non gli serve recuperare tutto Nietzsche, che considera obsoleto, ma solo la seconda delle Inattuali , che accompagna con un'introduzione (unico suo testo importante non incluso nel Sangue d'Europa ) in cui cita per esteso il passo che più gli interessa: "Chi ha imparato una volta a curvare la schiena e a chinare il capo di fronte alla 'potenza della storia', risponderà con un gesto meccanico di assenso, con un gesto alla cinese, a ogni potenza, si tratti di un governo, di un'opinione pubblica o di una maggioranza numerica e si muoverà secondo il ritmo con cui quella potenza tirerà i fili". Il volume esce nell'aprile 1943. A chi si rivolge Pintor: solo a se stesso e alla sua generazione?

Michele Sisto

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