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I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel XX secolo - James Clifford - copertina
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I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel XX secolo - James Clifford - copertina
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Dettagli

2
1999
428 p., ill.
9788833911496

Voce della critica


recensione di Fabietti, U., L'Indice 1994, n. 4
(recensione pubblicata per l'edizione del 1993)


Chi desiderasse sapere quali e quanti siano i motivi di ispirazione dell'antropologia contemporanea, soprattutto al di fuori dei suoi confini istituzionali e teorici tradizionali, troverà nel libro di Clifford una risposta originale brillante e autorevole. Profeta di un'antropologia "postmoderna" per la quale il mondo è ormai un incrociarsi di codici culturali privi di un centro, James Clifford è oggi una delle figure più conosciute dell'antropologia americana. La sua scrittura però, più che rifarsi alla tradizione antropologica statunitense, si alimenta di suggestioni europee. Pur parlando di un mondo "privo di centro", nel quale stentiamo a riconoscere quell'unità, o quella "unidirezionalità" che per tanto tempo aveva costituito il punto di riferimento del nostro pensiero "occidentale", Clifford subisce il fascino dell'etnologia, della filosofia, della letteratura e dell'estetica europee - e francesi in modo particolare. Barthes e Foucault sono i suoi mentori; Segalen, Griaule e Leiris le ombre che lo inquietano e lo affascinano; il Jardin des Plantes e il Musée de l'Homme i luoghi in cui per lui si compie il grande evento della nostra epoca: l'incontro dei codici, il pazzo turbinio dei frammenti di un mondo pronto a scomporsi - e a ricomporsi - continuamente ogni qual volta interviene l'atto significante di quel "qualcosa" che continuiamo a chiamare "cultura". Ma esiste qualcosa - si chiede Clifford - che possa ancora portare questo nome? L'idea che percorre tutto il libro è quella per cui la diversità culturale è più il risultato di pratiche discorsive (che si traducono in rappresentazioni dell'alterità, in stili di scrittura, in criteri di selezionamento di oggetti da collezione) che non di vere e proprie "differenze" pietrificate. "Può darsi che il concetto di cultura abbia fatto il suo tempo", egli dice infatti a un certo punto, e se dovremo continuare a servircene non sarà per dividere e separare, ma per cogliere il flusso continuo di messaggi che caratterizza la nostra epoca contemporanea a livello planetario: "La mia tesi - dichiara Clifford - è che l'identità... non possa essere che mista, relazionale e inventiva".
Il titolo del libro del resto, sebbene criptico, è programmatico. "I frutti puri impazziscono" è un verso del poeta americano William C. Williams citato da Clifford e adottato dal traduttore per evitare, con un abile escamotage, il titolo originale, intraducibile ma non per questo anch'esso meno indicativo dei motivi ispiratori del libro: "The Predicament of Culture", una specie di "imbarazzo" (ma anche di "imbroglio") della cultura. I "frutti" di Williams, e di Clifford, alludono proprio a quest'epoca postmoderna nella quale non solo ci appare difficile dire che cosa sia davvero una cultura, ma in cui il familiare, il noto, e soprattutto ciò che noi ci rappresentiamo come "autentico" (i frutti puri),sembra frammentarsi, corrompersi per via del "disordine culturale" che ci circonda. In quest'epoca postmoderna Clifford ravvisa invece il costituirsi di nuove identità positive. Egli è contro la visione pessimistica di un mondo in cui i cosiddetti popoli "arretrati", inibiti nelle loro potenzialità creative dal rullo compressore dell'industrialismo, sarebbero ormai incapaci di produrre una cultura "originale", di inventare "dei futuri locali". Il libro, come egli stesso scrive, "propone una diversa visione... non vede il mondo come popolato da autenticità in pericolo, frutti puri che impazziscono sempre". Il mondo postmoderno di Clifford rispecchia invece, come la poesia di Williams, "un insieme irrisolto di sfide alle visioni occidentali della modernità". Quali sono allora queste visioni occidentali della modernità? Sicuramente, in primo luogo, quella prodotta dal senso comune: il disorientamento, il disagio, l'angoscia, tutti stati d'animo prodotti dall'incontro con identità differenti; ma anche quello sguardo che osserva e constata, con sentimento doloroso e struggente, la "perdita" di mondi culturali che non ritorneranno mai più (sentimento che ha avuto in "Tristi tropici" di Claude Lévi-Strauss il momento più alto sul piano estetico). Ma Clifford è straordinariamente acuto nell'indagare altre modalità, altre strategie discorsive in cui si realizzano tali "visioni". Clifford affronta infatti il complesso intreccio di etnografia, letteratura e arte allo scopo di estrarre il comune denominatore che ha caratterizzato l'atteggiamento occidentale nei confronti dell'alterità sul piano conoscitivo: discorso e potere sono i poli entro cui l'autore de "I frutti puri impazziscono" colloca fenomeni e concetti come lo sviluppo e la crisi dell'"autorità etnografica", il modo di considerare l'"arte primitiva", l'antinomia Oriente/ Occidente, il collezionismo di oggetti esotici o la disputa giuridica tra una "tribù" indiana e una società immobiliare nell'America contemporanea.
Certamente i capitoli più significativi del libro, almeno sul piano teorico, sono quello sull'autorità etnografica, quello sul lavoro etnografico svolto da Marcel Griaule tra i Dogon e quello dedicato alla ridiscussione dei criteri di classificazione degli "oggetti tribali". Potere e dialogo inquadrano e delimitano, soprattutto in questi tre capitoli, il brillante svolgimento dei temi rispettivi. Nel primo saggio Clifford ci fa ripercorrere le tappe che portano dalla costituzione dell'etnografia come forma di scrittura "autorevole" alla crisi degli anni settanta, dove si impone definitivamente l'idea di una produzione del sapere antropologico come frutto di un'interazione tra l'etnografo e il suo interlocutore. Nel saggio su Griaule, Clifford ripercorre le strategie messe in atto dal celebre etnologo francese per "appropriarsi" del sapere dogon, svelando così il rapporto di forza che caratterizza (o che caratterizzava) l'antropologia dell'anteguerra. Nel saggio sull'"arte primitiva", infine, Clifford ridiscute le categorie di "arte", "creatività", "primitivo" e "cultura" alla luce di una serrata critica degli stili museografici, tanto etnografici che artistici, vigenti.
I saggi di cui si compone il libro indagano poi altri aspetti del rapporto che, all'interno del binomio discorso-potere, l'Occidente ha sviluppato nei confronti dell'alterità: seguiamo così Vicror Segalen nei suoi "spostamenti" e nelle sue riflessioni sull'esotismo; rileggiamo Conrad con gli occhi di Malinovvski; ripercorriamo con Michel Leiris il tormentato ripensamento della figura dell'etnografo; accompagniamo Aimé Césaire nella scrittura "ibrida", 'nŠgre', del suo poema e, in un capitolo pieno di suggestioni "parigine"; osserviamo i surrealisti amici degli etnografi recarsi al Marché aux puces. Il celebre mercato parigino si trasforma - siamo negli anni trenta - in un luogo dove si può sognare di un mondo aperto a sempre nuove combinazioni di senso, il luogo della "modernità". Ciò che il Musée de l'Homme farà in modo sistematico il Marché aux puces lo realizza in maniera spontanea. Qui, scrive Clifford, "si potevano riscoprire gli artefatti della cultura mescolati alla rinfusa e risistemati", segno di un'epoca in cui "con un po' di fortuna ci si poteva portare a casa qualche pezzo stravagante o inatteso... 'objets sauvages', sculture provenienti dall'Africa o dall'Oceania"; di anni in cui il surrealismo e l'etnografia si ritrovavano alleati nel "prendere le mosse da una realtà posta radicalmente in questione" e "gli altri apparivano come serie alternative umane" per cui "diventava possibile il moderno relativismo culturale".
Un libro, questo di Clifford, capace di restituirci una visione un po' meno pessimistica di un futuro fatto di un sempre più intenso contatto tra identità diverse e di scambio a livello simbolico. Forse, tuttavia, "I frutti puri impazziscono" risente di uno sguardo leggermente schizofrenico sulla realtà contemporanea. D'accordo sul fatto che l'autorità etnografica sia entrata in crisi e che non si possa più parlare degli altri come se questi fossero degli oggetti inanimati, privi di facoltà simboliche e di capacità creative, d'accordo anche sul fatto che il mondo si apra a un sempre più rapido interscambio di codici e di posture culturali. Ma, dovremmo chiederci, basterà tutto ciò a rendere il mondo più sicuro per tutti? Basterà reintegrare la creatività altrui nel flusso contemporaneo, basteranno i processi di interscambio che hanno come scenario soprattutto le megalopoli postmoderne a eliminare il conflitto e l'oppressione?

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